venerdì 30 dicembre 2011

DVM 15 - La strada di Mattia

Nuovo Diario della Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. Invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
info@metro-polis.it. 
A patto che il Diario del Viaggiatore Maldestro rimanga, sempre, la fedele ricostruzione delle esperienze, di ciò che è stato visto e vissuto, sempre in prima persona, da chi scrive.


Diario del Viaggiatore Maldestro
Fuerteventura - Canarie - Novembre 2011
“Eva! Eva!.....”
“Mattia, stai correndo sulle pietre scalzo!!!!”
“Sì, perché?” - un italiano spagnoleggiante e una vocina deliziosa - “Te dove abiti, in città?”
“Sì”- dico io.
E lui risponde: “Ecco, io sono un tipo da pietra e te una di asfalto!”.
Non fa una piega. Mattia ha le infradito in mano e mi fa strada sul sentiero che porta al vulcano. Morro scodinzola accanto a noi.

Fuerteventura è un'isola delle Canarie, e sembra un paese alieno. Distese di niente con l'oceano intorno. Quando la mattina metti il naso fuori dalla porta capisci che ci sei e non vorresti mai andare via. Dopo aver visto l'abbondanza e la ricchezza del mondo indiano, trovarsi qui è la metafora perfetta di un capitolo che si dischiude.

“Guarda, un coniglio!” – mi fa Mattia tutto allegro.
Chiaramente non lo vedo, qui ogni animale si mimetizza in maniera acrobatica... mi sforzo... mi arrampico sul muretto che separa il sentiero dai campi... sì, sì, eccolo!!!!! Vedere i conigli liberi nel deserto. Grazie.
“E lo sai che ci sono i fiori qui in questo campo?”.
“ No, non lo so...” - rispondo.
Mattia prende una pietra e me la mette sotto gli occhi: ci sono piccolissimi fiorellini violacei e sono belli. Crescono sulle pietre. E poi me ne fa vedere di bianchi e di gialli... e comincio a notare i muschi, alcuni tipi di erba, piantine grasse.

Ti metti la felpa jolly che porti da 10 giorni e l'mp3 alle orecchie.

Whatever tomorrow brings, I'll be there
With open arms and open eyes yeah
Whatever tomorrow brings, I'll be there
I'll be there


E poi un ragazzino di nove anni bello come il sole ti svolta la giornata.
“Sai, io mi trovo bene con te e gli altri… ho preso molta confidenza!!!”.
Gli altri: Mirko, scanzonato e amabile surfista che abita a Fuerte da circa cinque anni e che ci ha aperto la sua casa come se fosse nostra. Mary, ex fidanzata di Mirko, e Tiziana, fotografa professionista con visino d’angelo. Appena siamo a casa Mattia e suo fratello Santiago si fiondano da noi e si gioca!
“Mattia, anche noi stiamo bene bene con voi…”
Penso a che uomo diventerà da grande… e spero che tanto di quello che è rimanga.

Morro mi scorta a casa. Lo abbraccio. Ora è anche il mio cane fedele.
Due ore dopo siamo alla Primera Playa. Distesa di sabbia bianca e scogliere massicce. Vento, vento e ancora vento. Surfisti e cani che giocano. Io e Mary ci  tuffiamo nell’oceano e dopo aver oltrepassato la soglia del congelamento mi diverto come una bambina tra le onde.
Lasciare quest’isola non sarà per niente facile.
 

venerdì 18 novembre 2011

DVM 14 - Passaggio a Goa

Nuovo Diario della Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. Invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
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Diario del Viaggiatore Maldestro
Goa, India - Gennaio 2008

Un caffè nero di fronte all’Oceano Indiano. Anjuna Beach, il mitico rifugio dei freak dagli anni Sessanta e Settanta in poi, dove hanno suonato i Beatles e i Rolling Stones… beh, un bell’impegno!!! Credo di non aver mai visto una spiaggia tanto carica di energia alla prima occhiata, come se cielo, mare e terra si amalgamassero restando nell’immobilità della meditazione. E’ molto presto, e ci siamo solo noi seduti al caratteristico bar a strapiombo sul mare, sotto l’alba prepotente che presagisce il caldo del giorno. Che fare? Niente, per un’ora buona. Solo fluttuare nell'attesa. 

Il venditore di sassi 
Ecco un banchetto, allestito con cura e amore: cosa abbiamo? Una ventina di sassi grigi di varie dimensioni e forme, e in più alcune statuette filiformi dalla provenienza enigmatica. Che merce pregiata! Ma c’è qualcosa che aleggia nell’aria e che mi fa pensare. A dire il vero c’è anche quel vocio sommesso e deciso che ci ha accompagnati nel sentiero rosso ocra, polveroso e profumato: hashish,coca, trip. Cosa venderà mai questo ragazzone indiano che si accompagna ad altri simpatici e sorridenti indigeni? 

Ci siamo, la stanza è spoglia. Un tavolino di legno con sopra un quaderno pieno di numeri. Ragazzini asiatici e pusher di Goa. Dopo una breve e intensa trattativa abbiamo la nostra tola di fumo. Immediata, la prima canna in cameretta buoni buoni. Il primo assaggio. Buono… decisamente buono.  Mi domando cosa sia rimasto realmente di quegli anni di rivoluzione, in cui Goa era un baluardo dell’oriente (colonizzato dai Portoghesi, ma pur sempre in Oriente) conquistato dai figli dei fiori, dove le sostanze avevano un significato “altro”. Nel frattempo, dei giapponesi sfrecciano su scooter malandati: il loro cervello è completamente in banana… direi decisamente tanto. Il giapponese si fa prendere la mano, lo vedo. Lo vediamo tutti. C’è un po’ di vuoto e di stupore nei suoi occhi. 

E’ come mettere in uno shaker passato e presente, poi scuoterlo bene, e finalmente mettere il tutto nel bicchiere. Adesso: che colore ha questa bevanda? Vira sicuramente dal rosso acceso all’arancio. Nessun dubbio. 

Festa on the beach. Una signora indiana con una sari rosa acceso, sulla sessantina, vende piccole statuine di Ganesha augurando ai partecipanti: For a good party! La luna è piena, il vento meraviglioso, i sensi chiaramente alterati e la visione è  chiara. Ci sono anche bambini che ballano con coroncine di fiori …tracce di quel qualcosa vengono raccolte…  forse qui sento quel passato… sì, lo sento. Eccolo. 

Mandrem è la natura essenziale che si spalanca improvvisamente lasciando alle spalle un concentrato di cose. Forse troppe, per me. Il bianco della sabbia fine al posto del rosso intenso e degli scogli bruni. Impossibile non correre. Gli uccelletti saltellanti sono una miriade.  “Come to look my shop!”, “Come to look my shop!”.  Eccole. Ragazzine bellissime che snocciolano le stesse frasi agli occidentali tutto il giorno. Per vendere un vestito, un bracciale. Fra loro Gita, che ha quattro cavigliere, una ventina di bracciali tintinnanti, trecce nerissime e un sari che porta come jeans e maglietta. Ha 17 anni ed è una venditrice nata. Sai che c'è? Un feni, il tramonto di Anjuna e un po' di tola.

venerdì 14 ottobre 2011

DVM13 - Bombay onirica


Ospito oggi per la prima volta una Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. La ringrazio, e invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
info@metro-polis.it. 
A patto che il Diario del Viaggiatore Maldestro rimanga, sempre, la fedele ricostruzione delle esperienze, di ciò che è stato visto e vissuto, sempre in prima persona, da chi scrive.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Bombay, India - Gennaio 2008

Le tre del mattino. Uscendo dall'aeroporto m'invade l'odore di Mumbai. 
Il primo passaggio è davanti alla baraccopoli di una città che conta 16 milioni di abitanti. Sul taxi nero e giallo siamo in quattro: gli occhi incollati ai finestrini corrono veloci stando dietro ai suoni di clacson, e nessuno parla. Non c'è niente da dire: commenti sul volo di nove ore appena finito, se qualcuno ha fame o sete, cosa si fa domani....no.
Il nostro autista ci presenta la sua statuina di Ganesha (la divinità dalla testa di elefante e il corpo di uomo, che sarebbe poi diventata la mia “preferita” in assoluto), sapientemente incollata sul cruscotto, davanti al volante, sulla cui proboscide declina sinuosa una ghirlanda di fiori arancio vivo. Mi sembra che questo viaggio non finisca. I tetti di lamiera dello slum e poi i negozi dalle insegne in hindi e ancora il mare e un infinito malecón mille volte più ammaliante.
Siamo arrivati di fronte al nostro albergo, immerso in una scacchiera scomposta di strade e con davanti alti alberi gracchianti. I corvi sono decisamente poco discreti, il loro suono sovrasta tutto il resto, e io sono già in ipnosi. Scendendo dal taxi guardo dentro la porta a vetri opaca dell'albergo e vedo più persone nell' ingresso, tutte distese a dormire: alcuni indiani con la divisa da lavoro, una specie di livrea spartana, e uno di questi con un grosso turbante bianco (un sikh, avrei capito poi).
Tutti si svegliano e portano le nostre valigie in camera, gentili e pronti a ricevere le nostre prime rupie da spendere. La porta si chiude dietro di me e il mio amore, e lo sguardo va verso la finestra che in un attimo è spalancata. In strada ci sono vari gruppetti di uomini seduti sui marciapiedi che discutono, e ridono, e poi locali luminosi, carri che passano trainati da cavalli... polvere che sale.. sento i primi odori dell'India con attenzione. Quasi tre sigarette in mezz'ora e siamo in strada. 
Io e il Matteo. 
I nostri compagni di viaggio sono apparentemente spossati e forse anche un po' intimoriti, e li capisco. Ma DEVO vedere, ancora non so che il senso della vista in India è di un'intensità a tratti tenue rispetto a tutti gli altri sensi. Percorriamo la strada asfaltata che all'improvviso diventa una piazza sterrata e l'odore si fa più consapevole. Incenso, spezie, escrementi, cibi arrostiti e fritti, profumo di fiori. Una moltitudine di umanità fragile e potente che vive in un luogo che per me è altro, eppure già  parte essenziale di tutto il mio mondo. Le mucche magroline scampanellano lente e placide ed io gli accarezzo il muso: gli occhi grandi, lo sguardo buono. Vorrei compare queste foglie che masticano tutti... betel... sostanza onirica?!! 
Troppo indagare anche il gusto. 
Non so quanto è durato questo nostro primo passaggio stentato e stregato, ma ricordo l'intensità devastante della mia prima notte indiana.

domenica 9 ottobre 2011

DVM12 - Epernay, Kebab & Champagne


Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Epernay, Francia - Settembre 2011

Kebab e champagne è un ossimoro, forse una bestemmia, ma non ci penso, a Epernay, centro per eccellenza della produzione delle famose bollicine nonchè sede, fra l'altro, dei ventotto chilometri di cantine del Moet&Chandon. Azzanno il panino arabo mentre mi guardo intorno. Tutto, in questo posto, gira ovviamente intorno allo champagne, che qui non è solo vino, ma storia, turismo, paesaggio, lingua.

Dopo i primi di giri di scrocco assoluto (al locale ufficio del turismo ci sono, in offerta, almeno quattro degustazioni), la bussola gira sulle cantine Mercier, la cui manginficenza è certificata dal grande manifesto sulla strada del baffuto e ottocentesco Monsieur Mercier, il cui volto rubicondo (anche se la foto è in bianco e nero è ovvio che abbia le guancie rossicce) sorride dietro lunghi baffi bianchi.
Piccola parentesi: se non fosse giá chiaro, non capisco assolutamente niente di champagne. Lo apprezzo, naturalmente, ma non lo decifro, ecco. Non ne so i vitigni, la produzione, i metodi, la storia - e decisamente non sono qui per impararla. Sono l'impersonificazione di un beone ignorante il cui unico scopo è bere. Per cui, quando scendo dalla macchina nel cortile della Mercier a gola secca, e mi appropinquo all'entrata con Eva, la mia compagna di viaggio, sono deluso e comincio a dubitare di essere a Disneyland. Pullmann e guide turistiche mettono in fila improbabili visitatori - che ci fanno dei bambini di dieci anni? (forse ad imparare storia, la mia ottica da ubriacone non me lo suggerisce, sul momento) La visita alle cantine Disneyland, costa comunque una decina d'euro, senza degustazione, che si paga a parte. Senza neanche bere?

Giro sdegnato i tacchi e prendo il toro per le corna, cercando altro.
Pochi metri piú avanti, passando fra una serie di fabbricati piú o meno uguali, parcheggio in una casa, il cancello è aperto ed entriamo in un piccolo atrio in legno, con un bancone, bottiglie, un paio di tavoli e dieci sedie alte. Un pub chic. Una ragazza informa, c'è la possibilitá di degustare, a cifra modica, tre bicchieri a scelta dal catalogo scegliendo fra un decina di qualitá. Vada per la degustazione.
Piccola nozione acquisita: fu Dom Perignon (un monaco benedettino) a inventare nel settecento il metodo tipico. Si narra che abbia esclamato ai confratelli "sto bevendo le stelle!". Ed effettivamente, con l'entrata in circolo del settimo bicchierino di champagne in quindici minuti, il tempo rallenta, il corpo si rilassa. Insolitamente, le gambe reggono benone: miracoli del vinello. Tronfio della mia mancanza di cultura delle bollicine, ho comunque apprezzato alcune degustazioni, le differenze fra le qualitá sono palesi.
Eppure non sono ancora appagato. Mi sento ancora nel lusso, bonton, un poco sostenuto della bevuta raffinata, intellettuale. Vorrei una cantina piccola, con poca produzione, con dentro una piccola famiglia francese un poco naïf, con un numero di visitatori piccolo e nessun bambino alcolizzato. Per questo riprendiamo il mezzo e ci avventuriamo fuori da Epernay, in un viaggio nella campagna, alla ricerca di cantine meno rinomate, più genuinamente semplici.

Ed è così, senza troppa difficoltà, che giungiamo ad Ambonnay, e sbattiamo in un cortile un poco dismesso. Suonare il campanello in questa quiete sembra una bestemmia, ma è quello che facciamo per capire dove poter trovare una cantina. Che ovviamente è esattamente il luogo in cui ci troviamo. Una piccola e corpulenta donnina sui settanta ci fa accomodare in casa, in una stanzina con letto e tavolino. Stappa una bottiglia. Ne producono duemila esemplari l'anno. Lo champagne mi sembra buonissimo. Ho trovato quello che cercavo. Ed è allora che capisco.

Il piacere del gusto, gira intorno a mille altri sensi, probabilmente anche alle aspettative. Mi accorgo di cosa voglia dire - quando si parla di bere, mangiare - essere nel luogo di produzione; di come insomma tutta l'esperienza si faccia piú ricca, forse dispersiva, meno concentrata sul piacere unico del palato, ma certamente piú sfaccettata. I sensi coinvolti sono perlomeno più allertati, come se si vivesse una "realtà aumentata", assorbita per osmosi dall'ambiente intorno.
E tutto questo rende il gioco valido di essere vissuto.

domenica 28 agosto 2011

Attivi consumatori passivi

In Italia negli ultimi anni il consumo di psicofarmaci è aumentato del 75%. Come osserva il dottor Giuseppe Nicolò, responsabile del Centro Salute Mentale (CSM) Boccea di Roma, nonché presidente europeo della Società di Ricerca in Psicoterapia, “L'aumento è legato all'emergenza di nuove patologie, derivanti dallo stress e dalle condizioni di vita attuale, e soprattutto a una maggiore sensibilità nei confronti della malattia mentale, per cui è più facile che le persone chiedano aiuto e si rivolgano ad uno specialista”.
Fondamentalmente due cause, quindi. Da un lato siamo più stressati, dall'altro siamo consapevoli di esserlo e quindi più “sensibili”. Paradossalmente, non si prendono ansiolitici perché consapevoli di essere stressati, bensì il contrario: sappiamo di essere stressati perché prendiamo ansiolitici.

Credo che - come per secoli siamo stati quello che, alternativamente, mangiavamo o facevamo - oggi siamo ciò che vediamo. Lo specchio naturale delle nostre deviazioni, le immagini, sono un riflesso di noi non tanto per ciò che mostrano, quanto per ciò che comunicano. Più della violenza in sé è la cultura della violenza che crea terrore. Ovvero: siamo tanto più terrorizzati, ad esempio, dall’idea di criminalità derivata dal subirne quotidianamente le immagini, di quanto non effettivamente se ne siano subite le conseguenze. La nostra è una paura indotta. Come indotto mi appare lo stress ed anche il nostro esserne consapevoli. Siamo in definitiva in un regime di totale passività, guidati da cose che non conosciamo (perché spesso ne siamo informati, anziché farne diretta esperienza). Questa nostra passività si estende fino ad abbracciare la vita con comportamenti totalizzanti, vestendo una maschera benigna: quella dell'attivismo.
Insomma, il cosiddetto essere attivi, cioè avere e perseguire obbiettivi concreti, scalare il successo, garantirsi beni materiali, rappresenta per il senso comune il viatico verso la felicità. Che è tutto sommato l'esatto contrario, laddove bisogni indotti e l'insoddisfazione conseguente al non raggiungimento di tutti i beni materiali provocano infelicità. Del resto non è possibile, il bene materiale si sposta sempre più lontano ed offre un piacere circoscritto nel tempo e nello spazio: godo della cosa che ho ottenuto nel momento in cui la ho ottenuta e per poco tempo: lontano, nel tempo e nello spazio, ne godo certo molto poco. Questo essere guidati, essere schiavi di bisogni indotti ci rende passivi, in balia di altro da noi stessi, mentre, con un geniale ribaltamento di prospettiva, questo genere di comportamento passa sotto l'egida della produttività, dell'attivismo, del controllo totale della propria vita, della positività delle progressive sorti dell'umana gente.
Chi si trovasse a svolgere, al contrario, una attività contemplativa nei confronti del mondo e quindi ad espletare una azione decisamente attiva sul dato esperienziale, con un doppio carpiato del senso viene dipinto come passivo, non produttivo, negativo per la società.
La passività (quella reale), soprattutto del pensiero, ancora una volta, conviene.
A chi, non è dato capirlo esattamente. Sicuramente ai produttori di psicofarmaci, nonostante (cito ancora il Dott.Nicolò) “Gli ansiolitici siano dei farmaci la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Sono farmaci che danno solo un momentaneo benessere. Sono efficaci, quindi, solo nel breve periodo. Purtroppo, sono tra i farmaci più utilizzati, anche se determinano nel paziente dipendenza, l'astinenza quando il farmaco non viene assunto”. Droghe. Potenti e legali. Che creano dipendenza.

La passività (dipendenza) si traduce nelle immagini che, come società, diamo di noi. Siamo ciò che vediamo, ancora una volta, non tanto per ciò che le immagini mostrano di noi, quanto per ciò che suggeriscono. L'immagine tende a mostrare un solo significato, quello apparente, immediato. La pluralità di significati soggiacenti al primo arriva spesso sotto pelle. Come accade nella comunicazione pubblicitaria. Una ragazza seminuda che guida una macchina sportiva è solo una ragazza seminuda o al tempo stesso rappresenta un forte richiamo sessuale istintivo per la categoria target (maschio e benestante) che generalmente acquista quel tipo di mezzo. Questo genere di bisogno indotto rende il target piu’ felice, nel tempo e nello spazio?

E' il gioco delle matrjoske, dove le carte nascoste truccano la partita e tutto diviene il contrario di tutto, gli attivi assertivi (schiavi) da imitare, i passivi contemplativi (liberi) da rifuggire. La molteplicità, il moltiplicarsi dei significati stratificati che giacciono dormienti all'interno delle immagini, rappresentano la loro forza comunicativa ed allo stesso tempo un'arma pericolosa. Proprio per questo fattore costitutivo, essenziale, passivo ed attivo allo stesso tempo, siamo (come società) ciò che vediamo, l’immagine che diamo di noi.
Che accadrebbe se, in questo finale di partita, le immagini cessassero di rappresentarci e acquisissimo coscienza del benessere reale e delle necessità non indotte? L’economia globale ne risentirebbe? Cesseremmo il nostro ruolo attivo di consumatori passivi?


venerdì 26 agosto 2011

DVM11 - Essen, la Zollverein

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Essen, Germania - Febbraio 2010

Le previsioni non sempre vanno a buon fine, e trovo che sia una ottima cosa, dato che in genere proprio gli eventi imprevisti nella vita (almeno nel mio caso) offrono, in contropartita all'imperscrutabilità, le esperienze migliori.

È il caso del viaggio in Olanda e Germania, dove mi stavo preparando ad andare con deficit di entusiasmo. Ad essere sinceri la Germania non mi ha mai scaldato piu' di tanto. Sarà quell'idea generica di teutonica efficienza contrapposta alla mia genetica confusione mentale; insomma, siamo due concezioni del mondo. Mettiamo anche che è febbraio, e le previsioni ad Essen, meta del mio peregrinare, danno neve in abbondanza. Niente di prodigioso mi aspetta, e bofonchio maledizioni in partenza.

Quando scendo dall'aereo nell'aeroporto a dieci chilometri dal confine con l'Olanda, infatti, neve grande, morbida, copiosa. Noleggio una macchina e dopo meno di mezz'ora, con qualche tremore eccessivo (fa freddo, certo, ma mi salgono dalla spina dorsale strane scariche elettriche), sono giá alla reception del piccolo albergo scelto su internet. Pace e tranquillitá (dalla finestra d'albergo, a meno di dieci metri, vedo papere e un lago ghiacciato) a poca distanza dal mio obiettivo: una fiera dove si esporranno fiori e piante di tutto il nord europa, dove dovrei spacciarmi per brillante venditore in cerca di potenziale clientela. Ma in breve le scariche elettriche alla spina si tramutano in febbre a trentotto e dopo essermi imbottito di medicinali, aver effttuato un breve tratto di strada - che compio nel doppio del tempo necessario -, mi trovo a girovagare moribondo per la fiera in questione. Il risultato finale deve essere piú o meno quello di un drogato pallido e cadaverico, in astinenza e in preda a tremori, a colloquio (elemosinando euro per arrivare al prossimo buco) con rubicondi (paragonati a me) nordeuropei in un tripudio di fiori e colori: un ossimoro vagante. I risultati che porto a casa alla fine dei giochi sono infatti raccapriccianti, e non posso biasimare i miei un tempo possibili clienti: non avrei ispirato fiducia neanche a un cleptomane recidivo.

Il giorno dopo mi sveglio in condizioni decisamente migliori, ma la fiera é finita, e quindi ho davanti a me una giornata lunghissima che prevedo passata a guardare lago, papere e neve, con connessa sicura sbronza triste. Con questa prospettiva in mente decido di attivarmi e cercare qualcosa da fare ed improvvisamente, navigando, scopro che sono proprio nel bel mezzo della festa e non lo sapevo: Essen é la città europea della cultura duemiladieci ed io ho fino ad ora abilmente scansato il fulcro della movida culturale del continente di quest'anno (un pó come leggere un fumetto in bagno mentre la tua nazionale segna il gol della vittoria nella finale della coppa del mondo di calcio). Non tutto é perduto, mi dico, e con ancora il febbrone di ieri nelle ossa, mi infilo in macchina e riprendo la volta della Germania, a mezz'ora di autostrada (gratuita).

Mi sento un pó nel paese dei balocchi, ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta, ma - ahimé - non posso essere ubiquo e, fra le centinaia di eventi che potrei vedere, un poco a caso, mi dirigo verso la Zollverein (il sito, in inglese e tedesco, merita) una antica fabbrica diventata, come diligentemente ho avuto modo di apprendere su Internet, patrimonio dell'umanità.

Lo ammetto, sul momento ignoro totalmente cosa mi aspetta, e quindi, bardato fin sulle sopracciglia (fa un freddo cane e ieri ero il patetico simulacro di un essere umano) quando arrivo all'entrata il complesso mi appare come un campo di prigionia. E qui bisognerebbe soffermarsi su quanto siano potenti in genere i preconcetti che abbiamo formulati: basta un secondo per la loro affermazione definitiva, ci vogliono ore perché vengano smontati. Ed é esattamente quello che mi succede all'interno della Zollverein, che non solo non é un campo di prigionia, ma rappresenta la storia industriale dell'europa intera, e - grazie alla teutonica efficenza di cui sopra - l'enorme complesso é stato riconvertito in pochissimi anni dalla sua chiusura, a metà degli anni novanta, in una vera e propria città della cultura, con musei, auditorium, casa del balletto contemporaneo e tutto quanto, piú o meno ufficialmente, fa cultura. Il primo impatto é con la imponente struttura centrale, la cui entrata si trova all'ultimo piano e a cui si accede da una altissima scala mobile. Una volta all'interno del "ventre" industriale si viene abbracciati dagli enormi macchinari, parte della scenografia della storia (anche perché, al primo - ultimo piano, la storia é la stessa Zollverein). Mano a mano che si scende nello stomaco del complesso, con un vero e proprio effetto "digestione", attraverso una scala che da sola vale la visita, si snodano diverse mostre - addirittura un museo di storia naturale: tutto, maledizione, é fatto in maniera impeccabile.

Abituato al museo classico, dove un'opera d'arte/un reperto storico sono lí per essere contemplati, in un contesto piú o meno raffinato (magari all'interno di edifici che sono essi stessi opere d'arte), la Zollverein ridefinisce molto per me i confini del genere, dato che é lo stesso museo a farsi opera d'arte, non solo per la sua essenza architettonica, ma per come la sua essenza é stata sfruttata, ridisegnata e resa capace di dare emozioni: un luogo fantastico (ed allo stesso tempo molto concreto) in cui viaggiare e contemplare altre opere. Il tutto crea un cortocircuito che deve essere simile alla sindrome di Stendhal. Esco entusiasta e scaldato da questa esperienza, ammiro il teutonico perfezionismo e la cura del dettaglio. Fuori, ancora, come sempre negli ultimi tre giorni, bianchi fiocchi grandi e soffici cadono a rallentatore ed allora mi prende una vaga malinconia.

Penso a quanta ricchezza culturale vada sprecata nel mio paese, a come una realizzazione del genere in Italia sia fantascienza, per la rapidità di esecuzione, per la fondamentale assertività e concretezza, per la confortante sicurezza che i fondi stanziati andranno a foraggiare quel progetto ad uso della collettività, e non altre meno limpide tasche. Tutto questo, certo, ma forse un piú importante, genetico fattore: la nostra storia. Leggendo Saramago scrivere "l'Italia dovrebbe essere il premio che viene concesso per essere venuti al mondo", vengo colto dalla rabbia per quanto questa affermazione sia forte e vera, ed allo stesso tempo quanto questa verità rappresenti il maggior impedimento allo sviluppo futuro; la nostra eredità culturale é talmente grande e pesante che non siamo psicologicamente in grado di liberarcene. L'Unesco ha dichiarato 43 siti storici Italiani patrimonio dell'umanitá, piú che in qualsiasi altro luogo della terra. E questo, piú che qualsiasi altro legaccio, marca la differenza e rende esempi come la Zollverein cosí distanti e apprezzabili.

domenica 14 agosto 2011

La rivoluzione del tempo imprevisto

Organizzare è umano.
Anzi, organizzare è diabolico, in quanto motore propulsore dell’intera attività della società occidentale, la quale - dopo essersi avviata allegramente a erigersi come modello dominante di comportamento estendendo i suoi domini sul globo intero - schricchiola vistosamente. Vittoria di Pirro su un regno sgretolato, un mondo che abbiamo contribuito (negli ultimi secoli) in maniera determinante a portare sull’orlo del collasso, proprio grazie alla nostra capacità di organizzare gli eventi futuri.
Prevedere gli eventi, pare, è ciò che rende l’uomo diverso dalle altre specie viventi. Ovvero, è la sua capacità di porsi verso il futuro, di cercare di determinare quale sarà una data sequenza di eventi - che vadano ben al di là dell’immediato rapporto di causa effetto - che consente all’uomo, spingendo la sua mente in là nel tempo, di adottare una serie di comportamenti atti a “guidare” al meglio gli stessi eventi. Una attività, questa, estremamente legata alla logica, alla causalità.
Non si tratta di prefigurarsi scenari improbabili e di renderli reali, quanto di cercare, fra gli N scenari possibili, di scartare gli improbabili, e quindi graduare i plausibili, probabili ed infine i quasi certi. Quanto più la specie umana e le sue società sono state capaci di sfruttare questo modello “previsionale”, tanto hanno avuto successo nell’evolversi. Si potrebbe concludere che la capacità umana di preconizzare eventi ad una certa distanza nel tempo (e di beccarci, ovviamente), sia la misura del suo sviluppo.
Questo concetto trova una applicazione estrema nella nostra società (occidentale), organizzata sulla base del lavoro, e quindi su di una rigida codifica del tempo futuro.
Detto brutalmente, la maggioranza di noi è in grado, senza troppo faticare, di poter dire cosa succederà plausibilmente nella sua vita nelle prossime ventiquattro ore, nella prossima settimana, a volta persino nei prossimi sei mesi, un anno. La scintilla motoria di questa previsione è data dal lavoro, che ha tanta importanza per noi da essere persino citato come primo mattone della costituzione: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.
Questo castello di congetture però inizia improvvisamente a sfaldarsi nel momento in cui cessiamo di fondare la nostra società sul concetto stesso di lavoro. Per quanto folle questa idea appaia, vicini come siamo al collasso in questo terzo millennio, tanto vale fare questo esercizio di retorica per vedere dove porta.
Nel momento in cui il lavoro cessa di essere il motore plasmante delle nostre esistenze, l’idea stessa di tempo si riforma, e con essa il medesimo bisogno – primario oggi – di trovarsi a navigare in un tempo largamente previsto, organizzato, un “tempo amico”. Se spegnessimo la torcia che ci permette di vedere nell’oscurità del futuro, affidandoci al caso, tutto diverrebbe senz’altro caotico.
Come caotiche, spesso, ci appaiono le culture “altre”.
Esempi in merito: le popolazioni africane, del centro america. La fascia del mondo povera del pianeta che non ha potuto godere del tocco di Mida del nostro modello di sviluppo, e che, nei casi in cui lo ha dovuto subire, spesso questo ha partorito risultati mostruosi. Viaggiare in questi luoghi mi ha sempre dato la sensazione di vivere un tempo dilatato: i maggiori sforzi che ho sempre sofferto non sono mai stati dati dal doversi acclimatare, quanto dall’adattarsi ad un fluire del tempo diverso. Ho frequentemente sofferto di uno straniamento, un disturbo chiarissimo, la sensazione di essere fuori tempo, di vivere un tempo asincrono con il resto dell’ambiente che mi circondava. E non si trattava del Jet-lag.
Necessariamente generalizzando, come è d’obbligo in un argomento così vasto, mi pare che la gestione del tempo in queste popolazioni sia senz’altro differente dalla nostra. Oserei dire che è la maggior differenza che ci separa da loro. Di conseguenza diventa una differenza culturale. Semplicemente la vita non è scandita dal metro del lavoro. Spesso l’ottica si sposta dal lungo termine, come è in noi, al breve, brevissimo. Si vive, in qualche modo, solo il presente: si coglie l’attimo. Con ovvie conseguenze, a volte catastrofiche. Quando invece cerchiamo di imporre il “nostro” tempo sul tempo altrui, di altre culture, non otteniamo altro che conflitto. Ovviamente, essendo la nostra divenuta la cultura dominante (grazie proprio alla nostra gestione preconizzatrice del tempo) tendiamo ad imporre il modello che però ha prodotto i risultati sotto gli occhi di tutti.
Ed allora.
Siamo ancora veramente in grado di decantare, come gli illuministi, le magnifiche e progressive sorti dell’uomo? Alla fine dei tempi come siamo, cosa ci trattiene dal riconsiderare totalmente il nostro modello di sviluppo, la nostra stessa concezione di tempo, l’organizzazione delle ore subordinata in primo luogo al lavoro? Dove realmente porterebbe questa rivoluzione copernicana nella gestione del nostro tempo, delle nostre vite?

venerdì 5 agosto 2011

La ragionevole eliminazione

Nessuno dei paesi che ho avuto l'occasione di visitare negli ultimi quindici anni sembra essere esente da una malattia, una epidemia che, con straordinaria caparbietà, si attacca alla pelle come una zecca, privando il corpo delle risorse necessarie alla vita: in ognuno di questi paesi la malattia presenta varianti, dovute alla latitudine, alle differenze costitutive e storiche di ogni nazione, ma i suoi sintomi sono ovunque identici.

Clientelismo e corruzione rendono tutte le classi politiche simili, non importa in quale emisfero esse si trovino a operare o quale sia la lingua usata per comunicare: quando la specie politica si trova a dover arbitrare, e' troppo forte la tentazione (raccolta) di scendere in campo a giocare, in prima o interposta persona. La "gestione della cosa pubblica" sembra essere sempre un affare troppo grande e allettante per uscirne con le mani nitide. Il fenomeno é così diffuso e profondo, a livello mondiale, che mi sono chiesto se non fosse (per lo meno in linea teorica) possibile vivere senza politici.
L'etimologia della parola si riferisce a chi pratica l'arte di ciò che pertiene allo stato (nel'origine greca lo stato è sostiuito dalla città). In sostanza è colui che pratica l'arte della gestione di ciò che è pubblico.

Questo essere umano, spesso senza nessuna competenza specifica, approda sul ponte di comando della nave senza mai aver visto il mare. Ed e' a lui che viene demandato il compito di tenere il timone, scegliendo il miglior percorso, nella tempesta come in momenti di quiete.

Ho sempre creduto che fare politica non dovesse essere un lavoro, ma un servizio civile (un poco come il servizio militare), tempo che si dedica alla comunità, nella ferma convinzione di essere utili alla stessa. Sarebbe una necessità proibire stipendi (e coinvolgimenti) che non siano altro che meri rimborsi spese. Si può certo obiettare che un parlamentare di Palermo deve poter svolgere la propria attività a Roma in relative condizioni di tranquillità economica. Ma è questo che si chiede agli arbitri: non di arricchirsi scomettendo sulle gare che possono influenzare attraverso il loro arbitraggio. Piuttosto si chiede loro di garantire il corretto svolgimento della partita. E non si ricevono stipendi o paticolari vantaggi per il fatto di essere arbitri. Spesso l'arbitro e' abituato (a fronte di un misero tornaconto) a essere preso letteralmente a pesci in faccia. Ma continua a svolgere il suo ruolo, senza favorire la squadra del cugino, del fratello o della conoscente: consapevole delle regole e di essere lì per farle applicare.

Eppure, se l'arbitro riesce ad essere attaccato alle regole come una cozza, la classe poltica mondiale si ritiene dotata di uno status super partes, che la pone al di sopra dei normali esseri umani, e le conferisce una arroganza senza pari. C'é inoltre la permeabilità di questa classe o del suo clientelismo a vastissimi strati della società: spesso, come incastrate in una ragnatela, le forze attive e libere non riescono a muoversi, i criteri di merito non vengono applicati più perché il parametro avvalorante è la conoscenza o prossimità con il politico di riferimento.

Per questo l'intera classe politica (pur con alcune notevoli eccezioni) andrebbe azzerata, rifondata con nuove regole e forti limiti. Perchè rappresnta uno dei maggiori sprechi di risorse perpetrati a danno delle comunità, in particolar modo quelle meno protette, con maggior debolezza e povertà, economica e culturale; perché imprigiona le spinte vitali della società, deprimendone le potenzialità; perchè, infine, semplicemente non fa quello che dovrebbe, ovvero coltivare l'arte della gestione della cosa (e del bene) pubblico.

giovedì 30 giugno 2011

DVM10 - Lisbona e malinconia

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Lisbona, Portogallo - Gennaio 2007

Arrivo in Portogallo a gennaio, a Lisbona, obbiettivo ufficiale incontrare il direttore di un sugherifico, anche se le quercie da sughero e la loro lavorazione sono in realtà localizzate nella regione dell'Alenteju, un paio d'ore d'auto dalla capitale, dove andró in visita probabilmente domani. Sono le otto di sera e il freddo mi accoglie nella capitale Portoghese, ancora illuminata dalle luci post natalizie, belle, creative e impressionanti. Dopo una fermata in albergo per mollare le mie cose (sempre le stesse: pc e una borsa con pochi vestiti) mi concedo un giro notturno al Barrio Alto e subito ho delle prime piacevoli sorprese. Sono le dieci e mezzo e la vita pare appena iniziata, la gente si riverbera nelle arterie di questo quartiere, pieno di ristoranti, locali, strade strette e lastricate. C'è, nonostante i cinque gradi, un'atmosfera calorosa e accogliente. In qualche ristorante (piatto tipico: bacalao) stanno suonando Fado, che - per chi non ne ha mai sentito parlare invito all'ascolto di Amalia Rodriguez, o Madredeus - è una musica dagli accenti particolarmente malinconici, suonata con strumenti acustici. In questo caso, la cantante è donna, e cosí mi appoggio al muro fuori dalla taverna e ammaliato, chiudo gli occhi: non so di cosa stia cantando, anche fosse l'elenco telefonico potrei rimanere ad ascoltarla per sempre. É in quel preciso istante che scocca la scintilla: mi innamoro. Lisbona diventa la mia favorita, una delle piú belle capitali europee (Praga e Roma le altre). Colgo netta la sensazione di sentirmi in una casa, una delle innumerevoli attraversate, dove abbandonarmi, cullato da questa melassa che chiamano musica, ad un ozio malinconico e struggente, esistenziale. Devo dire che il Fado riflette magistralmente per me lo spirito della città, maestosa e decadente, ossimoro e colonna sonora di una nobiltà passata (e i grandi monumenti e in generale la pianta dela città lo testimoniano) allo stesso tempo popolana (come i piccoli negozi fermi agli anni settanta, o i vicoli che s'inerpicano su e giù per la città). Insomma passo quattro giorni a Lisbona e lo dichiaro, amo questa città, vorrei girare un film qui, perdermi fra le vie, i palazzi piastrellati e decorati in ceramica, le svolte mozzafiato, fra il castello di Sao Jorge e il grande mercato ortofrutticolo, assaporare l'oceano (il fiume Tago, in realtà, ma la sensazione di essere alle colonne d'Ercole, con lo sguardo che si perde verso una distesa piatta e infinita é molto presente), la nebbia mattutina, i tram che la tagliano arrivando e tornando nel niente, la corrida vista inuna domenica di ozio: vorrei vivere un poco di tempo ancora questo limbo dolce amaro e musicato a cui sicuramente il vino ha donato contorni alterati: ho sfiorato la sbronza in varie occasioni, il che ha contribuito a lasciarmi un'ebbrezza alcolica e sentimentale da liceale. E' anche per questo rimbimbimento che mi riprometto di tornare presto. Ma non solo. Alla fine rimango con l'impressione che i portoghesi siano, proprio come la città, parte di una nobiltá decaduta, data in pasto allo scorrere della storia, ma che non se la tirino affatto per questa loro grandeur, nè che si lamentino. Il che li rende in genere persone accoglienti, ospitali, ironiche e culturalmente ricche.

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lunedì 27 giugno 2011

L'ingiustificata attualita' del passato




Ogni tanto mi capita, per una sorta di devozione che ho verso Mina (e non solo per le sue corde vocali), di riguardare i vecchi filmati della rai, in particolare canzonissima del 68. C'è qualcosa di tremendo, per me, in quelle trasmissioni televisive, quelle canzoni e in generale verso l'intera estetica di quel decennio (68/78). Piccola premessa, tanto per mettere le mani avanti; che si dica pure che sono nostalgico, ma credo le considerazioni che seguono siano dettate da razionalita' e non da fanatismo.
Nelle trasmissioni televisive di quegli anni (e canzonissima é solo un paradigma), la ricerca e sperimentazione estetica la fanno da padrone. Le inquadrature, i movimenti di macchina e la stessa illuminazione (pur nel diverso impatto del bianco e nero) regalano sorprese. Sembra ed é, una televisione piú libera di quella attuale, ferma invece su canoni divenuti dogmi. Tutto pare oggi impastato con la medesima farina, in un appiattimento totale verso un unico stile. Matrix, Porta a porta, Sanremo, Amici, XFactor, il GF e l'Isola dei famosi, sembrano tutti partoriti (pur nelle loro ovvie differenze) a livello estetico dalla stessa mente, con lo stesso gusto registico, lo stesso registro nei testi, gli stessi tagli per le luci.
Nelle trasmissioni del sessantotto la semplicità (anche naif, forse adeguata ad un pubblico vergine) delle trasmissioni, dei messaggi (il video di celentano che canta azzurro, ad esempio) fa da contraltare ad una estrema elaboratezza estetica.
L'assenza di carne esibita, magari non eccita la libido (e sarebbe tutto da dimostrare quanto le gambe delle gemelle Kessler abbiano eccitato o meno la generazione di mio padre) ma neanche riporta il discorso generale su un solo binario: quello del sesso. Certo, i pubblicitari insegnano che con il sesso si vende molto, e certo, l'intera industria dell'immagine deve aver inglobato questo concetto molto chiaramente, fino al parossismo di trasmissioni come il Bagaglino (tanto per citarne una) o dell'obbligatorio cinepanettone natalizio.

Tutto questo argomentare per arrivare al nocciolo: negli ultimi venti anni, un velo di caramello plastico é stato sparso sulla rappresentazione della realtà e sulla sua stessa percezione estetica, formando (anzi, deformando) attraverso le immagini una intera generazione (la mia). Credo che l'impoverimento ed il livellamento del linguaggio siano stati cercati e trovati, consapevolmente, nel tentativo, in parte riuscito, di uniformare la massa devota alla telecrazia. Poi, in maniera costante e sottovalutata, il mondo é penetrato attraverso molteplici canali informativi (principalmente Internet) con pluralità visuale, lessicale, esplodendo negli ultimi anni, rendendo il mondo di caramello sempre meno attuale, e riportando la vecchia canzonissima ad una ingustificata attualità.

sabato 25 giugno 2011

DVM9 - Italia, Vacanze intellegibili.

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Italia, Viareggio - Luglio 2010

L’estate impazza: il caldo stramazza le eroiche schiere di lavoratori al suolo, squagliando le loro residue idee di gloria ed immolando tutto l’immolabile all’altare del mito: la Vacanza. La sacralità delle ferie è dogmatica, un concetto assorbito dai pori della pelle sin dall’infanzia, indubitabile ed assoluto. E’ l’ora d’aria del recluso, la boccata d’ossigeno del palombaro, in una parola "La Vacanza E’", tutto il resto dipende e ruota intorno a questa scadenza di durata bisettimanale e insieme traguardo annuale. L’obbiettivo, perseguito con forza e cieca perseveranza dalle allegre schiere (milioni, persino oserei dire miliardi) degli adepti, è il sistematico sputtanamento delle risorse (misere) accumulate negli undici duri mesi di astinenza.
E allora eccoci, finalmente azzurri e sorridenti, occhiali scuri, guidare sudati nel bel mezzo di una colonna di beati, a fare la distanza che ci separa dal Paradiso in una bara di metallo e ruote; fuori l’asfalto è una melma fusa con le gomme, dentro una piacevole brezza condizionata viene sparata a manetta, segno di uno status quo raggiunto che i meno fortunati, rimasti ahimè una minoranza, dai loro finestrini abbassati invidiano, e questo conta. Verrebbe anche quasi da bestemmiare per il passo d’uomo che siamo costretti a tenere, ma pazienza, è comunque Vacanza, la serotonina può riprendere ad espandersi in un cervello che si avvia felice verso la completa anestesia.

E’ così che, passata qualche ora, riusciamo ad immergerci dopo spericolati millimetrici fantasmagorici parcheggi, nella folla multiforme devota al solleone. Il piede affondato nella sabbia rovente ed il conseguente balletto sulle punte sono chiare conseguenze di una sola certezza: siamo al mare. Solita roba, qualche seno esibito, chili di cellulite nascosta, un paio di palestrati fingono trottando un footing ed il bagnasciuga è frequentato manco fosse sabato sera in centro. Dietro tutto questo, si intravedono donne gommone galleggiare al largo, delimitare la balneazione. Oltre a loro, dove lo sguardo incontra l’orizzonte, milioni di euro galleggiano sotto forma di piroscafi, panfili, vele. Tuffarsi diventa un dovere. Ma è una volta al largo che si ha il vero spettacolo. Voltarsi verso la riva svela un mondo: a perdita d’occhio lungo la spiaggia, ombrelloni rossi e tende blu, equidistanti e regolari, che suddividono geometrie sulla sabbia, come in una città invisibile, definendo i confini dei bagni. L’acquisto di una porzione di spiaggia, il suo affitto per qualche settimana, è concesso al modico sacrificio di svariati stipendi medi. Un gelato richiede un investimento. Per una bibita si consigliano pratiche bancarie. Ma pazienza, è comunque Vacanza e siamo al mare.
Cinquanta metri di rovente spiaggia più indietro c’è il castello e feudo: il Bagno, con i suoi abitanti. Prima nota: il Bagno è provvisto di piscina. Seconda: la piscina è molto frequentata. Terza: pare che le piscine siano ormai un must in tutti i bagni. Mi affaccio a controllare: la piscina vuole la cuffia. Stesso scenario di prima. Seni, cellulite, bronzea palestra e gommoni galleggianti. Con una differenza, hanno tutti la cuffia. E mancano i panfili e l’orizzonte. Intorno, il Bagno è provvisto di ristorante con annessi tavoli, camerieri, cuochi, sala giochi da pargolume, bar, ping pong, biliardino, tricchetracche e, ovviamente, le cabine. Cellulari squillano allegri continui e polifonici intervallati dagli schiamazzi degli under dieci. Intanto, due umanità si incrociano: una, seminuda e opulenta, si muove in verticale, dalla spiaggia al mare e viceversa, mentre un altra, vestita, povera, multietnica e fatta di venditori, traversa in orizzontale, parallelamente alle onde, i condomini sulla spiaggia. Ogni tanto si ferma, espone la merce e se ne và. La vita pullula, ma senza ansia, siamo in Vacanza.

giovedì 23 giugno 2011

DVM8 - Politiche dominicane

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Repubblica Dominicana, Nagua - Giugno 2011

Ore dodici, incontro con il sindaco di Nagua, Angel de Jesus Lopez, detto il Compa. Nagua é una città di circa settantamila abitanti sita nel nord est della Repubblica Dominicana, ed é la capitale della Provincia Maria Trinidad Sanchez. Per dire, vado a incontrare uno importante. E infatti, per l'occasione, sfodero una camicia e un paio di pantaloni lunghi (che a 35 gradi di media coniugati a settantacinque per cento di umidità é un esercizio di ascesi spirituale). La questione sul tavolo sarà semplice: l'azienda in cui lavoro produce un tot di rifiuti, il comune di Nagua possiede una discarica che vorrei utilizzare.

L'auto mi porta vicino al luogo dell'incontro e riparte: Jorge, l'incaricato dell'azienda che guida, deve sbrigare altre pratiche in giro, mi tornerà a prendere non appena io abbia finito. Armato delle migliori intenzioni, mi preparo e affronto l'edificio comunale dove il Compa mi ha dato appuntamento. Dopo breve anticamera vengo introdotto nell'ufficio del sindaco, dove un sedicente funzionario (che scambio per il mio uomo) mi fa parlare cinque minuti filati, prima di confessarmi che no, non é il sindaco, che il Compa mi aspetta al ristorante, a circa due chilometri dal comune, testualmente "donde Hierro Rafa". Informali, penso. Magari mi avesse avvertito prima, mi sarei organizzato. Va bene comunque. Ahimé sono a piedi. Chiamo al cellulare Jorge e mi faccio tornare a prendere, destinazione Hierro Rafa.
Quando approdo, il Compa mi accoglie abbassando il finestrino oscurato della sua Hummer nera. E' un dominicano di cinquanta anni, pelato, ma dentro alla jeep sembra un gangsta. Gli anelli che porta al dito e il portachiavi dell'auto diamantato contribuscono al luogo comue. Dentro all'Hummer, grazie al cielo, non sta suonando un rap a volume intossicante.

Aspettami cinque minuti, dice, siediti lí, io finisco qui. "Lí" é una panchina in ferro all'aperto (Hierro Rafa é un fabbro) ai soliti trentacinque gradi e "qui" é l'interno di un Hummer a 18 gradi di aria condizionta. I cinque minuti dominicani, và detto, sono una variabile elastica; da dieci a trenta minuti. Ed è già un lusso. Quando un dominicano dice "orita" dovete preoccuparvi seriamente: possono passare anche giorni interi prima che quello che vi hanno promesso accada. Comunque a me và straordinariamente bene, che passano solo quindici minuti e il Compa scende dall'auto. Non mi sono squagliato piú di un tot, prendo il respiro pronto a sciorinare tutta la mia tiritera, che il Compa mi spiazza ancora.

Che ne dici se andiamo a discutere mentre beviamo qualcosa? Ok, Compa (il lato buono é che siamo già amici di lunga data, ci damo del tu) ma sono a piedi. Nessun problema, ti porto io (il lato cattivo é che l'Hummer del Compa é già zeppa di gente e io sono mèzzo di sudore che sembro carta moschicida). Cmq riparto, schiacciato tra due ragazze (Segretarie? Apprendiste? Figlie? Ganze?) e un oscuro funzionario a cui il Compa si rivolgerà sempre a gesti. Nonostante i diciotto gradi (aria condizionata) continuo a sudare appiccicoso, ma nessuno dei miei vicini se ne duole, apparentemente. Il Compa mi scarrozza alla guida, mentre felicemente assolve a una decina di telefonate fiume, saluta gente, si accerta dei lavori in un paio di sterrati e si ferma a parlare nel mezzo della strada (senza mai scendere dalla jeep) con quattro altri conducenti, incurante delle code che si formano dietro ai suoi colloqui improvvisati. Dopo circa venti minuti di macchina siamo dalla parte opposta della città, entriamo in un comedor (trattoria) e finalmente ci sediamo uno di fronte all'altro. Altro respiro per dare il la al mio discorsino, ed il Compa si produce nuovamente in una telefonata che mi terrà in standby per altri venti minuti, che chiarisce alcune visioni erronee che avevo della politica in Repubblica e mi apre nuove prospettive.

Per inciso, i partiti in repubblica dominicana sono due: Partido Revolucionario Dominicano (PRD) E Partido de la Liberacion Dominicana (PLD). El Compa ha militato in entrambi (alla faccia del trasformismo), ed ora pare che entrambi vogliano fargli le scarpe. La frase che ripete più spesso al telefono é "sono pronto alla guerra come alla pace"; alla quinta volta che glielo sento ripetere diventa il mio guru personale. Alcuni passaggi sono interessanti, principalmente a dimostrare una tesi ovvia: gli uomini politici - di un certo calibro - non sono interessati ad altro che a perpetrare il proprio potere. I voti qui si comprano alla luce del sole, tanto che si é rovesciata la stessa idea di voto: sono i cittadini che si rivolgono direttamente ai candidati per sapere quanto sono disposti a pagare per ottenere il loro voto. L'ignoranza ed il bassissimo livello di istruzione (sulla cui qualità imbarazzante posso testimoniare vari aneddoti) rendono il popolo gestibile, addomesticabile e lo stesso paese preda dei debiti nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, che guida profondamente le scelte del governo in materia fiscale, economica, gestionale. Il FMI pare essere una sorta di usuraio internazionale, che guida le politiche dei paei sottosviluppati "consigliando caldamente" ditte a cui dare appalti, tasse da applicare e tipologia di ritorno del prestito. In genere, il prestito serve al paese stesso per ungere ed arricchire innanzitutto la classe politica e poi fare qualche opera di utilita' pubblica: chi paga il risultato di queste operazioni e' - nel 99% dei casi - la classe meno abbiente, attraverso incrementi dei costi su derrate alimentari e carburanti.

Il Compa non esita un secondo quando - finita la telefonata - si concede un attimo alla mia piccola questua; "esto es un pais subdesarrollado", sono le sue prime parole. Un paese sottosviluppato ad arte, nel quale la classe politica è, a tutti gli effetti, la zecca più affamata, che riduce la possibilità reale di sviluppo. Ahimé, lo stesso identico sistema, con poche varianti, in tutti i luoghi del mondo. L'ignoranza rende la gente schiava, la politica l'incanta con promesse e la grande finanza la vessa con costi sempre maggiori, che lo stesso popolo fatica a comprendere, grazie alla sua ignoranza.

Location:Nagua,Repubblica Dominicana

sabato 18 giugno 2011

Otello Nano

Abituato come sono al racconto di folle oceaniche in attesa del verbo o a supporto del martire, lo spettacolo un poco triste e improvviso di Silvio Berlusconi a processo senza nessuna ola ad attenderlo, o della sua telefonata e conseguente discorso ad una sala completamente vuota, mi fa lo stesso effetto dell'essere in un teatro a fine rappresentazione. Se ne sono andati tutti, il sipario é stato alzato un'altra volta, e sulla scena é scomparso il mondo di cartapesta, legno e carne che fino a pochi minuti prima mi aveva incantato. Al suo posto la realtà poco affabulante di tecnici al lavoro per smontare. Sempre interessante, per me, ma alla fine un poco deludente: scopri "come avevano fatto a" farti credere che il tal personaggio potesse volare, o a far piovere in scena. Molto spesso sono segreti di Pulcinella, cose semplici. Il teatro alla fine si riduce a pochi mezzi economici, non ci sono nella gran parte dei casi, tecnologie fuori dalla portata del senso comune.
Ecco, gli anni passati sembrano essere stati una rappresentazione continua, spacciata per realtà - come del resto fa il teatro, agli spettatori viene richiesta, per mutuo accordo, la sospensione dell'incredulità- ed ora che il sipario si rialza a fine recita, i trucchi usati sono chiaramente visibili. Ecco "come avevano fatto a" spacciare per eroi osannati e perseguitati (come Otello) attori di scarsa levatura. Ecco come intere claque venivano organizzate ad hoc, come le inquadrature televisive costruivano piazze strabordanti e roboanti di felicità. Eccoli lí, i trucchi, ancora una volta semplici. Tutto uguale al teatro. Con la palese differenza che l'intrattenimento in teatro affascina per qualche ora, lasciandoci piú poveri di pochi euro e ricchi (se lo spettacolo vale la pena) di emozioni, incommensurabili.
Questo intrattenimento nazionale é durato diciassette anni, e credo abbia impoverito il paese intero sia a livello economico, sociale, etico che -sopratutto - culturale. E decisamente lo spettacolo non é valso la pena di esser visto (e vissuto).

venerdì 3 giugno 2011

DVM7 - India, polvere e tecnologia, parte2

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro India - Kochi, Kerala, Febbraio 2007

Eccomi ancora in India, aspetto il bus che mi porterà da Bangalore a Coimbatore. In questa parte dell'India é dislocato il distretto tecnologico, dove gran parte dello sviluppo economico del paese si concentra. Alcune cose mi colpiscono. Nonostante l'ovvio progresso che il paese sta vivendo, rispetto al mio ultimo viaggio di dieci anni fa, le masse rimangono escluse dal boom economico. La povertà é palpabile, ovunque. Bangalore conta circa sei milioni di abitanti, é una metropoli congestionata, sporca, polverosa, dai forti contrasti. Una società che punta al consumo piú sfacciato é miscelata indissolubilmente a spiritualità e religione. Templi e immondizia si inseguono senza soluzione di continuità, ma non ho visto, come qualche tempo fa, corpi morenti in strada. Un bel passo in avanti. Bangalore é anche soprannominata la Silicon valley del sud est. Infatti la diffusione della tecnologia é straordinaria: cellulari e internet sono alla portata di chiunque. Giro nel centro città: i call center di mezzo mondo sono qui. Per inciso, l'uffico reclami di molte grandi aziende americane, come General Electric, Ford, é in uno dei palazzi del centro. In sostanza la casalinga dell'Michigan che vuol sapere perché il proprio frigo non funziona, crede di chiamare dietro casa, ma gli stanno rispondendo da Bangalore. I corsi di addestramento del call center sono istruttivi: insegnano a rispondere con accento del sud, niuiorchese, o californiano, a seconda della provenienza della chiamata.
Leggo la stampa locale (in inglese): fa notizia un chip antistupro che dovrebbe essere distribuito a tutte le lavoratrici che sono costrette a tornare a casa di notte. Funziona come un piccolo gps personalizzato, in grado di avvertire la polizia in caso di aggressione. Fantascienza, per me.
In visita ad una università, una ragazzina di ventuno anni dagli occhi scattanti mi spiega che sta studiando la possibilità di modificare geneticamente alcune sementi, per renderle piú resistenti ai parassiti. "Senza alcun danno per l'uomo" puntualizza, mentre la ascolto affascinato.

Mentre attendo alla fermata il mio pullman, ripercorro mentalmente quanto visto in questi giorni: ho assorbito come una spugna, i sensi non hanno potuto registrare tutta l'incredibile mole di informazioni e sensazioni. In piazza sta arrivando il mezzo che in una ora e mezzo mi porterà a Coimbatore. Nota bene. Viaggiare sulle strade dell'India, é un'esperienza molto particolare. Per chi, come me, non c'é abituato, puó sembrare di rischiare la morte a ogni minuto. Eppure, analizzandola meglio, non ho mai visto un incidente, e tutte le macchine sono intonse. Mistero. Un amico dello Sri Lanka mi spiega l'arcano. "La guida in India é incomprensibile ai piú, ma loro - gli indiani - hanno un loro codice, comunicano benissimo". Effettivamente con tutti i mezzi con cui ho viaggiato, dal taxi al tuctuc (per noi italiani, un'Ape con passeggeri) all'auto, mi sono sentito sempre sull'orlo della catastrofe. Tutti i guidatori si affannano come folli in corse spericolate, usando il clackson a raffiche continue. Eppure.
Ecco il mio mezzo che si fa spazio fra la gente.
Medito sulla ricchezza, sulla tecnologia mentre salgo. Lo sviluppo economico, il tocco dorato non ha certo toccato tutti gli strati della popolazione, mi dico, guardandomi intorno. Sembra di essere in una specie di Purgatorio: l'onda umana brulica nella piazza mentre cerco posto sul pullman. Povera gente, penso, accalcata mentre la storia gli passa davanti, a un passo dalle progressive sorti, eppure cosí lontani dal beneficiarne realmente. In quel momento sale sul bus un tizio vestito solo con un panno bianco, sporco e maleodorante. Ha uno zaino con se. Si siede accanto a me mentre io intanto cerco invano di spedire un sms a mia moglie. Niente da fare, non ho campo. Guardo il poveraccio accanto a me. Avrà cinquanta anni, ma ne dimostra almeno dieci in più. Le sue rughe sono rese piú evidenti dalla polvere che ha sul viso. Lo compatisco, dall'alto della mia superiorità culturale ed economica. Vorrei scriverne a mia moglie, maledizione, ma ancora non ho campo. É in quel momento che accade.
Neanche mi avesse letto nel pensiero il povero paría, sporco, arretrato, infila una mano nel suo zaino. Ne estrae un piccolo portatile. Lo apre. Dal portatile estrae una piccola antenna. Apre un browser e inizia a navigare in Internet, mentre io mi trasformo all'istante in un piccolo idiota retrogrado con preconcetti frantumati, un cellulare inutile nelle mie mani, e la bocca spalancata in una smorfia di stupore beota.


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Location:Bangalore, India

domenica 22 maggio 2011

DVM6 - India, polvere e tecnologia, parte1

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
India - Kochi, Kerala, Febbraio 2007
Parte1

Ho paura di volare ma amo viaggiare. Diciamo che farsela sotto a ogni turbolenza rappresenta lo scotto da pagare al lusso del viaggio, l'ho presa cosí. I prossimi quindici giorni, per contrappasso, prevedono che io prenda undici voli, attraverso cinque nazioni. Eppure stavolta l'idea del trovarmi a diecimila metri di altezza non mi spaventa, sono eccitato dall'idea di tornare, dopo dieci anni dal mio ultimo viaggio, in India.

Solite questioni di business. Ma ogni viaggio in India é un'esperienza a se: la molteplicità di sensazioni alle quali sono soggetto dallo sbarco in aereoporto fino alla partenza mi fa godere al solo pensiero che presto metteró piede sul suolo di Cochin, nel sud del paese. Per arrivare fin qui sono passato dall'Austria, la linea che ho scelto stavolta ha un ottimo servizio (perché quando si vola verso est ogni sedile ha un visore e un comfort superiore, qualsiasi sia la linea, e andando verso ovest vi trovate inscatolati in un sedile angusto e torturatore?) e dallo SriLanka, dove torneró, per ulteriori esplorazioni, alla fine di questa settimana di viaggio.

Non mi ingannavo: appena mi affaccio sulla scaletta, per scendere dall'aereo, uno schiaffo olfattivo alle spezie mi aggredisce le narici. Sembra curry misto a umido. É un odore indefinibile e fantastico, che mi accoglie e conferma che sono arrivato. All'aereoporto un gruppo di contatto mi accoglie neanche fossi il mahatma. Sono venuti a prendermi con tre macchine, la loro ospitalità é imbarazzante e calorosa: probabilmente immaginano cose su di me che io stesso non ho mai osato pensare. Bah, mi faccio trattare come un nababbo, non posso mica ribellarmi. Murugan, quello che sembra il capo, parla moltissimo e io ci metto una decina di minuti prima di capire cosa effettivamente stia dicendo. Questione di ritmo e musica. L'inglese qui é una seconda lingua (oltre alle 400 lingue dell'india, intendo, e oltre all'Hindi, la lingua ufficiale) ma la cadenza, finché non riesco ad afferarla, mi rende ogni cosa incomprensibile. Poco male, dopo dieci minuti sono già abituato e la conversazione procede fluida. Murugan mi spiega che non potrà essere sempre con me, che saró accompagnato nel mio peregrinare da SenthilKumar. Senthil, abbreviato, é seduto sul sedile dietro della Tata (la maggiore industria del paese, principalmente automobilistica) e batte la testa nel tetto a ogni buca. Non emette suono, ma se potesse grugnirebbe. Deve essere due metri almeno, per centocinquanta chili. Murugan guida, io sono sul sedile accanto. Il cubaggio del retro della macchina è occupato da un monolitico indiano in occhiali scuri, barba e completo beige. Se ho ben capito é la mia guardia del corpo. Non credo di averne bisogno, ma se me l'hanno assegnato avrà un senso. Spero. L'unico movimento che Senthil emana, mentre Murugan mi magnifica le sorti della nostra collaborazione (siamo già fratelli) é quello relativo al fazzoletto che usa per asciugarsi il sudore della fronte.

Cochin (o Kochi) é nel Kerala, nel sudovest del paese, si affaccia sul mare arabico, ed é, come gran parte delle città indiane, sporca. La spazzatura (sopratutto plastica) la fa da padrona in ogni luogo, mescolandosi alla polvere ocra. Dal punto di vista estetico, é chiaramente una delle prime impressioni. Ma é solo una grattatina alla superficie e sotto c'é un mondo talmente vasto che non basta una vita ad assimilarlo. Consapevole del limite che ho, vado avanti assorbendo quel che posso.

Il mio cicerone con la parlantina decide che é l'ora del pranzo, e quindi ci fermiamo in un piccolo ristorante sulla strada. Capitolo cibo indiano. I costi sono bassissimi (circa un paio di dollari a testa) ed il cibo - per il mio gusto - superlativo. La cultura culinaria di questo paese rivaleggia tranquillamente con i miei standard europei. Mi sono messo in testa che bontà della cucina e storia, cultura vadano di pari passo. Gli inglesi sono l'eccezione che conferma la regola.

Il cibo del Kerala é speziato e mediamente piccante, vegetariano o con carne, non molto leggero per lo stomaco, a dire il vero. Differisce molto dal cibo degli altri stati, un pó come paragonare la cotoletta alla milanese con la coda alla vaccinara. Quindi viaggiare in India vuol dire anche trovarsi ad effettuare un odissea del gusto, variabile di luogo in luogo. Per me è vizio capitale: fra gli altri, finirò nel girone dei golosi, non riesco a tenere stomaco e bocca a freno, e a ogni pasto mi sento ingrassare. Iniziamo e vedo i miei commensali leggermente a disagio con forchette e coltelli. Mi lancio e inizio a mangiare con la mano (una sola), seguito con sollievo da tutti. Una considerazione totalmente soggettiva: il piacere che si prova a mangiare con le mani, senza le protuberanze di noi che sono le posate, rende l'esperienza gustativa, visiva e olfattiva anche tattile. Questione di coinvolgimento dei sensi. E anche, probabilmente, del sottile piacere connesso all'idea che si sta disobbedendo a una regola acquisita.

Insomma, si gode, punto. Ed io, infatti, faccio fuori ogni cosa, senza avere la minima idea (nè preoccupazione) di cosa stia mangiando.

Per defatigare, a fine pranzo mangio una foglia rinfrescante, con dentro spezie per profumare l'alito e per digerire meglio. Funziona, ho lo stomaco gonfio come un tamburo ma mi sento leggiadro come una ballerina del Bolscioi. Il cameriere (foto) mi guarda serafico.

Fuori una spiaggia enorme e deserta, che fatico a immaginare ricolma di turisti, piccoli mulinelli di sabbia e onde alte, in lontananza. Il ristorante è sulla spiaggia, ma il mare dista almeno un centinaio di metri. Fa caldo, è umido e sudo, un po' per l'inevitabile e un po' per il cibo piccante. Una vecchia con un vestito viola passa con il suo ombrello da pioggia per ripararsi dai raggi del sole e tutto mi si cristallizza in un quadro che mi dà assuefazione e piacere.

Socchiudo gli occhi, penso che domani saremo solo io ed il monolito vestito di lino che mi fa da guardia del corpo, destinazione Bangalore.

Location:Kochi, India

sabato 21 maggio 2011

Le cinque giornate di Milano




La batosta elettorale che spero preveda una rapida uscita di scena (non indolore, temo), credo consenta un esercizio a cui, a dire il vero, si stanno dedicando in molti. É il compito di una intera categoria di giornalisti: creare il coccodrillo, il profilo biografico video che andrà in onda al momento che il personaggio di turno, pace all'anima sua, se ne andrà al creatore. Insomma, tutti i giornali, gli opinionisti, i presentatori, si danno da fare a capire se stia finendo una stagione o meno. Pare si giochi tutto intorno al voto di Milano.

Per questo, in questi giorni ho il timore crescente che a Milano, pur di mobilitare l'elettorato che nelle giornate del voto ha preferito dedicarsi ad altro, per disaffezione, per stanchezza, per volontà punitiva, per distrazione, si cerchi un colpo ad effetto. Come mobilitare l'elettorato é uno dei punti focali immagino per tutte le forze, in maniera prominente per il centro destra. La radicalizzazione dello scontro cercata nella campagna elettorale non ha pagato, anche se il nostro Presidente del Consiglio sembra non pensarla a questo modo. Credo che rimangano ben poche carte da tentare.
La piú sporca, e la butto lí, tanto per mettere le mani avanti, sarebbe creare il cosiddetto "evento": utile a colpire alla pancia l'elettorato, a smuoverlo dalla poltrona, spingendolo a votare, in genere viene attribuito ad una causa esterna, non riconducibile direttamente a questa o quella parte poltica. Se ne hanno le prime avvisaglie oggi. "La mamma di un componente della giunta Moratti aggredita e presa a calci". Potrebbe, e non me lo auguro davvero, essere solo la premessa di un coup de theatre violento, spinto all'eccesso e pensato da chi non ha altre armi dialettiche, e ha in mente una vera e propria sceneggiatura asservita al mantenimento del potere, nel permanente frullato di fiction e realtà che é il nostro paese, oggi.

Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media, mi sembra interessante riportare le prime due. Per la lista completa http://www.fallacielogiche.it/index.php?option=com_content&task=view&id=54&Itemid=68

1 - La strategia della distrazione.
L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Bisogno tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali.

2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione.
Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

Se la fine di un'epoca ci dovesse mai consegnare qualcosa, a parte varie scorie, dovrebbe essere la capacità di affacciarci al balcone a guardare questo strano caleidoscopio di colori assortiti un poco a caso che é l'Italia e la sua trasformazione del corso degli anni, scoprendo quante volte, in maniera oscura, la manipolazione dei sentimenti pubblici sia servita a eleggere, approvare o gestire la cosa pubblica a fini particolari. L'augurio é che Milano non si aggiunga alla lista.


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mercoledì 11 maggio 2011

DVM5 - Rivolta Ivoriana

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro

Costa d’Avorio, Abidjan, 16 Gennaio 2006


Ci sono.
Torno nello stesso posto dove i miei genitori hanno vissuto il loro primo anno africano, appena sposati. Sono passati quaranta anni, per me è come tornare sul luogo del delitto. Abidjan, Costa d'Avorio.
Prima di partire tutte le precauzioni necessarie: vaccini, vaccini e ancora vaccini. Il medico mi consiglia precauzioni contro l'aids, contro l'epatite A, l'epatite B, il colera, la febbre gialla, quella tifoidea, etc. Seguo tutto scrupolosamente. Accenna anche qualcosa a proposito della diarrea del viaggiatore, ma si tratta di complicazioni secondarie.

Ad Abidjan ci arrivo dopo una decina di ore di volo, partenza da Bruxelles, dopo uno scalo a Freetown, in Sierra Leone. C'è aria elettrica, in città. Pare che l'Onu di stanza qui (la Costa d'Avorio vive in una guerra civile da diversi anni, il nord contro il sud e in mezzo i francesi, che di fatto non se ne sono mai andati dall'indipendenza coloniale negli anni sessanta) abbia sparato alcuni colpi, ferendo a morte un Ivoriano. C'è odor di rivolta fin dall'aereoporto.

L'albergo è niente male, molto business style, ma del resto questo è quello che rappresento qui: un uomo d'affari. E va bene, sono stato un sacco di cose, aggiungo solo un personaggio alla fila. Arrivo e sono molto affamato, è quasi mezzanotte, ora locale. Un'occhiata alla carta dei servizi, c'è la cena in camera. Un po' snob, ma molto business. Alzo la cornetta ed ordino una zuppetta di funghi e per secondo dei gamberetti in salsa con insalata: da bere un vinello rosso francese, Bordeaux. Incrocio le gambe sul tavolino da fumo nella mia stanza al quarto piano, con vista sulla strada principale e mi godo mentalmente il comfort. Pro del business tropicale.
Pochi minuti ed arriva tutto in camera, tavolino compreso. In una ventina di minuti mi faccio fuori tutto il mangiabile. Un paio di rutti poco business molto maschi, l'ipnosi musicale di un po' di televisione francese e poi, infine, l'abbraccio del letto a due piazze. Alle tre di notte un languore non ben definito mi sveglia; dal basso ventre un segnale mi invita ad alzarmi. Immediatamente. Devo correre. Apro la porta del bagno e malauguratamente (per lui) la prima cosa che mi trovo di fronte è il lavandino: a lui rendo con uno spruzzo gioioso la zuppetta di funghi, i gamberetti, l'insalata ed il vinello rosso francese. In ordine sparso. Erutto come un vulcano dormiente da secoli, sono inarrestabile. Uno strano connubio fra Krakatoa e l'esorcista. Nel frattempo la sostanza liquida autoemessa ha formato un laghetto di dimensioni tutt'altro che risibili nel lavandino e non accenna a calare attraverso il suo naturale sfogo. Intanto i conati proseguono.
Primi accenni di panico e conseguente prima mossa sbagliata: aprire il rubinetto. Niente da fare. La zuppona aumenta di volume e si rifiuta di scomparire nelle tubazioni. Nuovi conati e secondo errore: nella confusione generale causata dal dormiveglia e dai disturbi, risolvo che la mossa migliore sia togliere il tappo del lavandino. Senza troppo attardarmi a pensare (l'azione, signori, l'azione la virtù dei forti) infilo le mani nella brodaglia violacea (ach, il vino francese). Nel viaggio verso il tappo in fondo al brodo, le mie mani incontrano in sospensione i gamberetti e l'insalata: paiono danzare felici, resi ebbri dallo stramaledetto liquido amniotico imbottigliato in Francia. Perso in questo filosofare, non faccio due più due e tolgo il tappo.
Cinque tragici secondi e la situazione si fa veramente difficile. Gli indisciplinati gamberetti, in preda al panico, si accalcano in massa verso l'uscita, ostruendo la tubazione. E ancora conati. Stavolta un'illuminazione viene a salvarmi. Meglio continuare il mio discorso nella tazza del cesso.

Finito. Faccio la conta dei danni.
Mi ritrovo con un'imbarazzante, puzzolente, riottosa massa liquida nel mio lavandino che si rifiuta di scomparire. La soluzione è chiara ed univoca: prendo un bicchiere ed inizio a trasbordare il brodo primordiale dove avrei dovuto lasciarlo già alla prima eruzione. Mentre riempio il cesso svuotando il lavandino mi rendo conto di quanto compromessa sia la situazione. I gamberetti hanno occupato in pianta stabile tutta la tubazione. Con la coda di uno spazzolino provo ad aprire un varco per lo scolo, ma la gamberettanza è ostinata e piantona lo spazio senza possibilità di rimozione. Penso alle vie d'uscita: potrei chiamare la reception con fare molto scocciato e lamentarmi perché la mia camera ha il lavandino ostruito dai gamberetti. Farebbe abbastanza business? Intanto la situazione precipita ancora più in basso, il mio stomaco torna a farsi sentire. Stavolta mi pare che non cerchi una via d'uscita verso l'alto. Cos'è che aveva detto il medico?
Puntuale, il disturbo noto come diarrea del viaggiatore arriva senza pietà per i miei sensi già provati. Nelle seguenti quattro ore, a scadenze regolari, dovrò alzarmi dal letto cinque volte per visitare il bagno, con conseguente disidratazione e malessere generale.
Prime controindicazioni del business tropicale.

Seconde: evitare accuratamente di fare business in paesi tropicali in guerra civile e sull'orlo di una rivolta popolare (a meno che non si vendano armi, e non è il mio caso). Nei seguenti quattro giorni le strade di Abidjan saranno impercorribili e piantonate da miliziani, civili, bambini. Pare che qualsiasi cosa su due gambe abbia un fucile. Dal mio quarto piano vedo i blocchi stradali improvvisati, mentre combatto per tre giorni a suon di Imodium. Pare gli Ivoriani ce l'abbiano con i bianchi.
Al quinto giorno di prigionia forzata (quando il mio fisico inizia a riaversi) i viveri cominciano a scarseggiare nel mio albergo business. Mangiamo gallette, e viviamo tutti rimbalzando fra la hall, le camere e il cocktail bar. Alla fine del quinto giorno il mio contatto Ivoriano (Jeròme, un imprenditore di caffè di una sessantina di anni) si presenta nella hall, e mi propone la sortita dall'albergo: la situazione di sta calmando, dice. Accetto con piacere, lui mi tranquillizza. Saliamo sulla jeep vetri scuri con choffer. Occupo i sedili nel retro, ho solo una valigietta (il mio trolley). L'indomani dovrei avere il volo di ritorno ma dall'Europa sono stati cancellati tutti i voli, pare che dovrò fare una tratta interna (tipo Abidjan - Ouagadugu - Dakar) per tornare verso Bruxelles.
Non facciamo neanche un chilometro che siamo fermi a un posto di blocco: davanti a noi una decina di ragazzi fra i quindici e venti anni, tutti armati con fucile e senza nessuna uniforme. Il maggiore và a parlare con Jeròme. Gli altri si avvicinano al mio finestrino oscurato. Con il calcio del fucile inziano a battere sul vetro, mentre io sprofondo dietro i miei occhiali scuri e penso che la vita, tutto sommato, è valsa la pena. E' in questo momento che Jeròme ha la brillante idea di uscire dal suo sportello e urlare all'indirizzo dei ragazzi: è questo il modo di offendere vostro padre? E' questo il modo di mancare di rispetto a chi è più anziano?

In quel momento io sono una sottiletta con gli occhiali da sole, su un sedile in pelle nel retro di una jeep ostaggio di un gruppo di ragazzini ribelli armati e senza freni inibitori nel mezzo dell'Africa equatoriale. Spero che la pallottola mi colpisca in una zona che mi porti a morte certa in breve tempo. Non vorrei agonizzare. Odio le morti lente, anche al cinema.
Eppure, miracolosamente, in pochi, eterni secondi, tutto si schiarisce. Le parole di Jeròme sortiscono l'effetto voluto, il blocco si dissolve, la jeep riprende il suo tragitto e Jeròme si gira verso di me: sono ragazzi. Credo mi abbia salvato la vita, e vorrei santificarlo, ma questa volta ho davvero avuto paura, e sorrido sforzato. So solo che l'indomani un volo AirAfrica mi traghetterà attraverso tre nazioni, per depositarmi a Dakar, in Senegal e questo è l'unico pensiero che mi tranquillizza.

lunedì 9 maggio 2011

La Sanità di diritto

La sanità privata racchiude in sè un rischio altissimo che sarebbe necessario considerare, quando ci si scaglia contro la pubblica. Negli ultimi due mesi sono stato costretto a fare i conti - in diversi paesi, dagli Stati Uniti al centro america - con un modello sanitario differente da quello italiano, basato sulla sanità privata e sulle assicurazioni che offrono copertura sanitaria. Su quattro medici consultati ho ricevuto quattro diverse diagnosi, in due casi su quattro sono stato fortemente invitato a ricoverarmi (in clinica privata) e mi sono stati prescritti esami non necessari (eseguiti all'interno delle stesse cliniche). Il tutto, se occorre dirlo, a pagamento.

Funziona piú o meno cosí: sto male, ho una qualche forma di dolore che non conosco e quindi vado dal medico. Entro in un ambulatorio e alla ricezione una donna, in genere, mi fa sedere in sala d'attesa (l'entrata). Poi alza la cornetta e lo chiama: il medico. Arriva il propietario della clinica (in questo caso cubano), mi fa sedere e mi visita. Mi rassicuro: i cubani sono noti per avere medici preparati e macchine degli anni cinquanta. Prassi: pressione, auscultazione, domande di rito.
Poi la sfilza di analisi, da fare, per avere un responso adeguato. Che dire, già qui c'é poco da scegliere, oltretutto il laboratorio é in house. Qunidi via con esami urine, sangue. L'ultima analisi richiesta sono i raggiX, al torace. Per farli arriva un CiccioIngrassia dominicano in canotta, pochi capelli e un dente d'oro, appoggia il suo motorino all'entrata e mi chiede di seguirlo nella stanza. Ciccio rimane con me nella stanza (qui la chiamano quarto) sorride mentre mi chiede di stare fermo e sacrifica ai raggi i suoi ultimi capelli, mentre l'onda radioattiva ci rende trasparenti, me sulla lastra, lui e il suo dente nella mia memoria. Nessuna protezione per lui, né precauzione di sorta per me. Vabene, non si muore di soli raggiX, mi convinco. Attendo quindi i risultati e con il mio plico torno dal cubano, nella stanza accanto.

Di solito la figura del dottore rappresenta per i miei parametri una fonte piuttosto affidabile, in cui riporre generalmente fiducia. Mi spiego meglio: non vado dal medico prevenuto sul suo verdetto.

Il cubano sfoglia i referti, testeggia e sentenzia: ti devi ricoverare in clinica (sottinteso: la mia). Segue una piccola battaglia verbale sulla mia impossibilità al ricovero, al lasciare un lavoro che mi necessita come il pane, al mollare una famiglia che senza di me non ha sostentamento e giú, chi piú ne ha. Riesco a vincere la battaglia (ma non la guerra) con scorno del cubano, che infine si decide a darmi la diagnosi: polmonite. Io mi convinco; che diamine, tossisco e scatarro sembro un'ottuagenario incallito fumatore di LuckyStrike senza filtro.
Segue prescrizione di cocktails di farmaci vari (farmacia casualmente inhouse) e conto finale. Ottomila pesos. Centoquaranta euro.
Tutto sommato economico, ma il fulcro del problema é un altro.

In sostanza la percezione generalizzata é che in un sistema basato sulla compravendita di un servizio, il malato raprresenta una sorta di pollo da spennare (detta meglio, una specie di consumatore) in alcuni casi da spaventare, purché spenda il massimo possibile delle risorse. Senza assicurazione, una visita medica negli Stati Uniti mi sarebbe costata 700 dollari. Non avendo copertura, mi sono astenuto. Il medio al telefono mi fa la gentilezza di diagnosticarmi una bronchite. In conclusione, senza assicurazione sanitaria e senza soldi, la salute da queste parti non é un diritto.

Questo genere di esperienze fanno apprezzare il sistema sanitario nazionale, pur povero di mezzi e risorse, che offre un servizio pubblico, alla portata delle tasche di chiunque. Con le sue pecche, spesso qualitative, ma tutto sommato democratico, in qualche modo paritario.

Dulcis in fundo: dato che la mia supposta polmonite non passava, mi son visto costretto a chiedere altri consulti ad altri medici. Ho, nell'ordine: una bronchite (medico A), un'infezione alla gola (questa, perlomeno, visibile ad occho nudo: medico B), un'infiammazione dei reni (medico C).

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