venerdì 5 agosto 2011

La ragionevole eliminazione

Nessuno dei paesi che ho avuto l'occasione di visitare negli ultimi quindici anni sembra essere esente da una malattia, una epidemia che, con straordinaria caparbietà, si attacca alla pelle come una zecca, privando il corpo delle risorse necessarie alla vita: in ognuno di questi paesi la malattia presenta varianti, dovute alla latitudine, alle differenze costitutive e storiche di ogni nazione, ma i suoi sintomi sono ovunque identici.

Clientelismo e corruzione rendono tutte le classi politiche simili, non importa in quale emisfero esse si trovino a operare o quale sia la lingua usata per comunicare: quando la specie politica si trova a dover arbitrare, e' troppo forte la tentazione (raccolta) di scendere in campo a giocare, in prima o interposta persona. La "gestione della cosa pubblica" sembra essere sempre un affare troppo grande e allettante per uscirne con le mani nitide. Il fenomeno é così diffuso e profondo, a livello mondiale, che mi sono chiesto se non fosse (per lo meno in linea teorica) possibile vivere senza politici.
L'etimologia della parola si riferisce a chi pratica l'arte di ciò che pertiene allo stato (nel'origine greca lo stato è sostiuito dalla città). In sostanza è colui che pratica l'arte della gestione di ciò che è pubblico.

Questo essere umano, spesso senza nessuna competenza specifica, approda sul ponte di comando della nave senza mai aver visto il mare. Ed e' a lui che viene demandato il compito di tenere il timone, scegliendo il miglior percorso, nella tempesta come in momenti di quiete.

Ho sempre creduto che fare politica non dovesse essere un lavoro, ma un servizio civile (un poco come il servizio militare), tempo che si dedica alla comunità, nella ferma convinzione di essere utili alla stessa. Sarebbe una necessità proibire stipendi (e coinvolgimenti) che non siano altro che meri rimborsi spese. Si può certo obiettare che un parlamentare di Palermo deve poter svolgere la propria attività a Roma in relative condizioni di tranquillità economica. Ma è questo che si chiede agli arbitri: non di arricchirsi scomettendo sulle gare che possono influenzare attraverso il loro arbitraggio. Piuttosto si chiede loro di garantire il corretto svolgimento della partita. E non si ricevono stipendi o paticolari vantaggi per il fatto di essere arbitri. Spesso l'arbitro e' abituato (a fronte di un misero tornaconto) a essere preso letteralmente a pesci in faccia. Ma continua a svolgere il suo ruolo, senza favorire la squadra del cugino, del fratello o della conoscente: consapevole delle regole e di essere lì per farle applicare.

Eppure, se l'arbitro riesce ad essere attaccato alle regole come una cozza, la classe poltica mondiale si ritiene dotata di uno status super partes, che la pone al di sopra dei normali esseri umani, e le conferisce una arroganza senza pari. C'é inoltre la permeabilità di questa classe o del suo clientelismo a vastissimi strati della società: spesso, come incastrate in una ragnatela, le forze attive e libere non riescono a muoversi, i criteri di merito non vengono applicati più perché il parametro avvalorante è la conoscenza o prossimità con il politico di riferimento.

Per questo l'intera classe politica (pur con alcune notevoli eccezioni) andrebbe azzerata, rifondata con nuove regole e forti limiti. Perchè rappresnta uno dei maggiori sprechi di risorse perpetrati a danno delle comunità, in particolar modo quelle meno protette, con maggior debolezza e povertà, economica e culturale; perché imprigiona le spinte vitali della società, deprimendone le potenzialità; perchè, infine, semplicemente non fa quello che dovrebbe, ovvero coltivare l'arte della gestione della cosa (e del bene) pubblico.

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