domenica 22 maggio 2011

DVM6 - India, polvere e tecnologia, parte1

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
India - Kochi, Kerala, Febbraio 2007
Parte1

Ho paura di volare ma amo viaggiare. Diciamo che farsela sotto a ogni turbolenza rappresenta lo scotto da pagare al lusso del viaggio, l'ho presa cosí. I prossimi quindici giorni, per contrappasso, prevedono che io prenda undici voli, attraverso cinque nazioni. Eppure stavolta l'idea del trovarmi a diecimila metri di altezza non mi spaventa, sono eccitato dall'idea di tornare, dopo dieci anni dal mio ultimo viaggio, in India.

Solite questioni di business. Ma ogni viaggio in India é un'esperienza a se: la molteplicità di sensazioni alle quali sono soggetto dallo sbarco in aereoporto fino alla partenza mi fa godere al solo pensiero che presto metteró piede sul suolo di Cochin, nel sud del paese. Per arrivare fin qui sono passato dall'Austria, la linea che ho scelto stavolta ha un ottimo servizio (perché quando si vola verso est ogni sedile ha un visore e un comfort superiore, qualsiasi sia la linea, e andando verso ovest vi trovate inscatolati in un sedile angusto e torturatore?) e dallo SriLanka, dove torneró, per ulteriori esplorazioni, alla fine di questa settimana di viaggio.

Non mi ingannavo: appena mi affaccio sulla scaletta, per scendere dall'aereo, uno schiaffo olfattivo alle spezie mi aggredisce le narici. Sembra curry misto a umido. É un odore indefinibile e fantastico, che mi accoglie e conferma che sono arrivato. All'aereoporto un gruppo di contatto mi accoglie neanche fossi il mahatma. Sono venuti a prendermi con tre macchine, la loro ospitalità é imbarazzante e calorosa: probabilmente immaginano cose su di me che io stesso non ho mai osato pensare. Bah, mi faccio trattare come un nababbo, non posso mica ribellarmi. Murugan, quello che sembra il capo, parla moltissimo e io ci metto una decina di minuti prima di capire cosa effettivamente stia dicendo. Questione di ritmo e musica. L'inglese qui é una seconda lingua (oltre alle 400 lingue dell'india, intendo, e oltre all'Hindi, la lingua ufficiale) ma la cadenza, finché non riesco ad afferarla, mi rende ogni cosa incomprensibile. Poco male, dopo dieci minuti sono già abituato e la conversazione procede fluida. Murugan mi spiega che non potrà essere sempre con me, che saró accompagnato nel mio peregrinare da SenthilKumar. Senthil, abbreviato, é seduto sul sedile dietro della Tata (la maggiore industria del paese, principalmente automobilistica) e batte la testa nel tetto a ogni buca. Non emette suono, ma se potesse grugnirebbe. Deve essere due metri almeno, per centocinquanta chili. Murugan guida, io sono sul sedile accanto. Il cubaggio del retro della macchina è occupato da un monolitico indiano in occhiali scuri, barba e completo beige. Se ho ben capito é la mia guardia del corpo. Non credo di averne bisogno, ma se me l'hanno assegnato avrà un senso. Spero. L'unico movimento che Senthil emana, mentre Murugan mi magnifica le sorti della nostra collaborazione (siamo già fratelli) é quello relativo al fazzoletto che usa per asciugarsi il sudore della fronte.

Cochin (o Kochi) é nel Kerala, nel sudovest del paese, si affaccia sul mare arabico, ed é, come gran parte delle città indiane, sporca. La spazzatura (sopratutto plastica) la fa da padrona in ogni luogo, mescolandosi alla polvere ocra. Dal punto di vista estetico, é chiaramente una delle prime impressioni. Ma é solo una grattatina alla superficie e sotto c'é un mondo talmente vasto che non basta una vita ad assimilarlo. Consapevole del limite che ho, vado avanti assorbendo quel che posso.

Il mio cicerone con la parlantina decide che é l'ora del pranzo, e quindi ci fermiamo in un piccolo ristorante sulla strada. Capitolo cibo indiano. I costi sono bassissimi (circa un paio di dollari a testa) ed il cibo - per il mio gusto - superlativo. La cultura culinaria di questo paese rivaleggia tranquillamente con i miei standard europei. Mi sono messo in testa che bontà della cucina e storia, cultura vadano di pari passo. Gli inglesi sono l'eccezione che conferma la regola.

Il cibo del Kerala é speziato e mediamente piccante, vegetariano o con carne, non molto leggero per lo stomaco, a dire il vero. Differisce molto dal cibo degli altri stati, un pó come paragonare la cotoletta alla milanese con la coda alla vaccinara. Quindi viaggiare in India vuol dire anche trovarsi ad effettuare un odissea del gusto, variabile di luogo in luogo. Per me è vizio capitale: fra gli altri, finirò nel girone dei golosi, non riesco a tenere stomaco e bocca a freno, e a ogni pasto mi sento ingrassare. Iniziamo e vedo i miei commensali leggermente a disagio con forchette e coltelli. Mi lancio e inizio a mangiare con la mano (una sola), seguito con sollievo da tutti. Una considerazione totalmente soggettiva: il piacere che si prova a mangiare con le mani, senza le protuberanze di noi che sono le posate, rende l'esperienza gustativa, visiva e olfattiva anche tattile. Questione di coinvolgimento dei sensi. E anche, probabilmente, del sottile piacere connesso all'idea che si sta disobbedendo a una regola acquisita.

Insomma, si gode, punto. Ed io, infatti, faccio fuori ogni cosa, senza avere la minima idea (nè preoccupazione) di cosa stia mangiando.

Per defatigare, a fine pranzo mangio una foglia rinfrescante, con dentro spezie per profumare l'alito e per digerire meglio. Funziona, ho lo stomaco gonfio come un tamburo ma mi sento leggiadro come una ballerina del Bolscioi. Il cameriere (foto) mi guarda serafico.

Fuori una spiaggia enorme e deserta, che fatico a immaginare ricolma di turisti, piccoli mulinelli di sabbia e onde alte, in lontananza. Il ristorante è sulla spiaggia, ma il mare dista almeno un centinaio di metri. Fa caldo, è umido e sudo, un po' per l'inevitabile e un po' per il cibo piccante. Una vecchia con un vestito viola passa con il suo ombrello da pioggia per ripararsi dai raggi del sole e tutto mi si cristallizza in un quadro che mi dà assuefazione e piacere.

Socchiudo gli occhi, penso che domani saremo solo io ed il monolito vestito di lino che mi fa da guardia del corpo, destinazione Bangalore.

Location:Kochi, India

sabato 21 maggio 2011

Le cinque giornate di Milano




La batosta elettorale che spero preveda una rapida uscita di scena (non indolore, temo), credo consenta un esercizio a cui, a dire il vero, si stanno dedicando in molti. É il compito di una intera categoria di giornalisti: creare il coccodrillo, il profilo biografico video che andrà in onda al momento che il personaggio di turno, pace all'anima sua, se ne andrà al creatore. Insomma, tutti i giornali, gli opinionisti, i presentatori, si danno da fare a capire se stia finendo una stagione o meno. Pare si giochi tutto intorno al voto di Milano.

Per questo, in questi giorni ho il timore crescente che a Milano, pur di mobilitare l'elettorato che nelle giornate del voto ha preferito dedicarsi ad altro, per disaffezione, per stanchezza, per volontà punitiva, per distrazione, si cerchi un colpo ad effetto. Come mobilitare l'elettorato é uno dei punti focali immagino per tutte le forze, in maniera prominente per il centro destra. La radicalizzazione dello scontro cercata nella campagna elettorale non ha pagato, anche se il nostro Presidente del Consiglio sembra non pensarla a questo modo. Credo che rimangano ben poche carte da tentare.
La piú sporca, e la butto lí, tanto per mettere le mani avanti, sarebbe creare il cosiddetto "evento": utile a colpire alla pancia l'elettorato, a smuoverlo dalla poltrona, spingendolo a votare, in genere viene attribuito ad una causa esterna, non riconducibile direttamente a questa o quella parte poltica. Se ne hanno le prime avvisaglie oggi. "La mamma di un componente della giunta Moratti aggredita e presa a calci". Potrebbe, e non me lo auguro davvero, essere solo la premessa di un coup de theatre violento, spinto all'eccesso e pensato da chi non ha altre armi dialettiche, e ha in mente una vera e propria sceneggiatura asservita al mantenimento del potere, nel permanente frullato di fiction e realtà che é il nostro paese, oggi.

Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media, mi sembra interessante riportare le prime due. Per la lista completa http://www.fallacielogiche.it/index.php?option=com_content&task=view&id=54&Itemid=68

1 - La strategia della distrazione.
L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Bisogno tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali.

2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione.
Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

Se la fine di un'epoca ci dovesse mai consegnare qualcosa, a parte varie scorie, dovrebbe essere la capacità di affacciarci al balcone a guardare questo strano caleidoscopio di colori assortiti un poco a caso che é l'Italia e la sua trasformazione del corso degli anni, scoprendo quante volte, in maniera oscura, la manipolazione dei sentimenti pubblici sia servita a eleggere, approvare o gestire la cosa pubblica a fini particolari. L'augurio é che Milano non si aggiunga alla lista.


- Posted using BlogPress from my iPad

mercoledì 11 maggio 2011

DVM5 - Rivolta Ivoriana

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro

Costa d’Avorio, Abidjan, 16 Gennaio 2006


Ci sono.
Torno nello stesso posto dove i miei genitori hanno vissuto il loro primo anno africano, appena sposati. Sono passati quaranta anni, per me è come tornare sul luogo del delitto. Abidjan, Costa d'Avorio.
Prima di partire tutte le precauzioni necessarie: vaccini, vaccini e ancora vaccini. Il medico mi consiglia precauzioni contro l'aids, contro l'epatite A, l'epatite B, il colera, la febbre gialla, quella tifoidea, etc. Seguo tutto scrupolosamente. Accenna anche qualcosa a proposito della diarrea del viaggiatore, ma si tratta di complicazioni secondarie.

Ad Abidjan ci arrivo dopo una decina di ore di volo, partenza da Bruxelles, dopo uno scalo a Freetown, in Sierra Leone. C'è aria elettrica, in città. Pare che l'Onu di stanza qui (la Costa d'Avorio vive in una guerra civile da diversi anni, il nord contro il sud e in mezzo i francesi, che di fatto non se ne sono mai andati dall'indipendenza coloniale negli anni sessanta) abbia sparato alcuni colpi, ferendo a morte un Ivoriano. C'è odor di rivolta fin dall'aereoporto.

L'albergo è niente male, molto business style, ma del resto questo è quello che rappresento qui: un uomo d'affari. E va bene, sono stato un sacco di cose, aggiungo solo un personaggio alla fila. Arrivo e sono molto affamato, è quasi mezzanotte, ora locale. Un'occhiata alla carta dei servizi, c'è la cena in camera. Un po' snob, ma molto business. Alzo la cornetta ed ordino una zuppetta di funghi e per secondo dei gamberetti in salsa con insalata: da bere un vinello rosso francese, Bordeaux. Incrocio le gambe sul tavolino da fumo nella mia stanza al quarto piano, con vista sulla strada principale e mi godo mentalmente il comfort. Pro del business tropicale.
Pochi minuti ed arriva tutto in camera, tavolino compreso. In una ventina di minuti mi faccio fuori tutto il mangiabile. Un paio di rutti poco business molto maschi, l'ipnosi musicale di un po' di televisione francese e poi, infine, l'abbraccio del letto a due piazze. Alle tre di notte un languore non ben definito mi sveglia; dal basso ventre un segnale mi invita ad alzarmi. Immediatamente. Devo correre. Apro la porta del bagno e malauguratamente (per lui) la prima cosa che mi trovo di fronte è il lavandino: a lui rendo con uno spruzzo gioioso la zuppetta di funghi, i gamberetti, l'insalata ed il vinello rosso francese. In ordine sparso. Erutto come un vulcano dormiente da secoli, sono inarrestabile. Uno strano connubio fra Krakatoa e l'esorcista. Nel frattempo la sostanza liquida autoemessa ha formato un laghetto di dimensioni tutt'altro che risibili nel lavandino e non accenna a calare attraverso il suo naturale sfogo. Intanto i conati proseguono.
Primi accenni di panico e conseguente prima mossa sbagliata: aprire il rubinetto. Niente da fare. La zuppona aumenta di volume e si rifiuta di scomparire nelle tubazioni. Nuovi conati e secondo errore: nella confusione generale causata dal dormiveglia e dai disturbi, risolvo che la mossa migliore sia togliere il tappo del lavandino. Senza troppo attardarmi a pensare (l'azione, signori, l'azione la virtù dei forti) infilo le mani nella brodaglia violacea (ach, il vino francese). Nel viaggio verso il tappo in fondo al brodo, le mie mani incontrano in sospensione i gamberetti e l'insalata: paiono danzare felici, resi ebbri dallo stramaledetto liquido amniotico imbottigliato in Francia. Perso in questo filosofare, non faccio due più due e tolgo il tappo.
Cinque tragici secondi e la situazione si fa veramente difficile. Gli indisciplinati gamberetti, in preda al panico, si accalcano in massa verso l'uscita, ostruendo la tubazione. E ancora conati. Stavolta un'illuminazione viene a salvarmi. Meglio continuare il mio discorso nella tazza del cesso.

Finito. Faccio la conta dei danni.
Mi ritrovo con un'imbarazzante, puzzolente, riottosa massa liquida nel mio lavandino che si rifiuta di scomparire. La soluzione è chiara ed univoca: prendo un bicchiere ed inizio a trasbordare il brodo primordiale dove avrei dovuto lasciarlo già alla prima eruzione. Mentre riempio il cesso svuotando il lavandino mi rendo conto di quanto compromessa sia la situazione. I gamberetti hanno occupato in pianta stabile tutta la tubazione. Con la coda di uno spazzolino provo ad aprire un varco per lo scolo, ma la gamberettanza è ostinata e piantona lo spazio senza possibilità di rimozione. Penso alle vie d'uscita: potrei chiamare la reception con fare molto scocciato e lamentarmi perché la mia camera ha il lavandino ostruito dai gamberetti. Farebbe abbastanza business? Intanto la situazione precipita ancora più in basso, il mio stomaco torna a farsi sentire. Stavolta mi pare che non cerchi una via d'uscita verso l'alto. Cos'è che aveva detto il medico?
Puntuale, il disturbo noto come diarrea del viaggiatore arriva senza pietà per i miei sensi già provati. Nelle seguenti quattro ore, a scadenze regolari, dovrò alzarmi dal letto cinque volte per visitare il bagno, con conseguente disidratazione e malessere generale.
Prime controindicazioni del business tropicale.

Seconde: evitare accuratamente di fare business in paesi tropicali in guerra civile e sull'orlo di una rivolta popolare (a meno che non si vendano armi, e non è il mio caso). Nei seguenti quattro giorni le strade di Abidjan saranno impercorribili e piantonate da miliziani, civili, bambini. Pare che qualsiasi cosa su due gambe abbia un fucile. Dal mio quarto piano vedo i blocchi stradali improvvisati, mentre combatto per tre giorni a suon di Imodium. Pare gli Ivoriani ce l'abbiano con i bianchi.
Al quinto giorno di prigionia forzata (quando il mio fisico inizia a riaversi) i viveri cominciano a scarseggiare nel mio albergo business. Mangiamo gallette, e viviamo tutti rimbalzando fra la hall, le camere e il cocktail bar. Alla fine del quinto giorno il mio contatto Ivoriano (Jeròme, un imprenditore di caffè di una sessantina di anni) si presenta nella hall, e mi propone la sortita dall'albergo: la situazione di sta calmando, dice. Accetto con piacere, lui mi tranquillizza. Saliamo sulla jeep vetri scuri con choffer. Occupo i sedili nel retro, ho solo una valigietta (il mio trolley). L'indomani dovrei avere il volo di ritorno ma dall'Europa sono stati cancellati tutti i voli, pare che dovrò fare una tratta interna (tipo Abidjan - Ouagadugu - Dakar) per tornare verso Bruxelles.
Non facciamo neanche un chilometro che siamo fermi a un posto di blocco: davanti a noi una decina di ragazzi fra i quindici e venti anni, tutti armati con fucile e senza nessuna uniforme. Il maggiore và a parlare con Jeròme. Gli altri si avvicinano al mio finestrino oscurato. Con il calcio del fucile inziano a battere sul vetro, mentre io sprofondo dietro i miei occhiali scuri e penso che la vita, tutto sommato, è valsa la pena. E' in questo momento che Jeròme ha la brillante idea di uscire dal suo sportello e urlare all'indirizzo dei ragazzi: è questo il modo di offendere vostro padre? E' questo il modo di mancare di rispetto a chi è più anziano?

In quel momento io sono una sottiletta con gli occhiali da sole, su un sedile in pelle nel retro di una jeep ostaggio di un gruppo di ragazzini ribelli armati e senza freni inibitori nel mezzo dell'Africa equatoriale. Spero che la pallottola mi colpisca in una zona che mi porti a morte certa in breve tempo. Non vorrei agonizzare. Odio le morti lente, anche al cinema.
Eppure, miracolosamente, in pochi, eterni secondi, tutto si schiarisce. Le parole di Jeròme sortiscono l'effetto voluto, il blocco si dissolve, la jeep riprende il suo tragitto e Jeròme si gira verso di me: sono ragazzi. Credo mi abbia salvato la vita, e vorrei santificarlo, ma questa volta ho davvero avuto paura, e sorrido sforzato. So solo che l'indomani un volo AirAfrica mi traghetterà attraverso tre nazioni, per depositarmi a Dakar, in Senegal e questo è l'unico pensiero che mi tranquillizza.

lunedì 9 maggio 2011

La Sanità di diritto

La sanità privata racchiude in sè un rischio altissimo che sarebbe necessario considerare, quando ci si scaglia contro la pubblica. Negli ultimi due mesi sono stato costretto a fare i conti - in diversi paesi, dagli Stati Uniti al centro america - con un modello sanitario differente da quello italiano, basato sulla sanità privata e sulle assicurazioni che offrono copertura sanitaria. Su quattro medici consultati ho ricevuto quattro diverse diagnosi, in due casi su quattro sono stato fortemente invitato a ricoverarmi (in clinica privata) e mi sono stati prescritti esami non necessari (eseguiti all'interno delle stesse cliniche). Il tutto, se occorre dirlo, a pagamento.

Funziona piú o meno cosí: sto male, ho una qualche forma di dolore che non conosco e quindi vado dal medico. Entro in un ambulatorio e alla ricezione una donna, in genere, mi fa sedere in sala d'attesa (l'entrata). Poi alza la cornetta e lo chiama: il medico. Arriva il propietario della clinica (in questo caso cubano), mi fa sedere e mi visita. Mi rassicuro: i cubani sono noti per avere medici preparati e macchine degli anni cinquanta. Prassi: pressione, auscultazione, domande di rito.
Poi la sfilza di analisi, da fare, per avere un responso adeguato. Che dire, già qui c'é poco da scegliere, oltretutto il laboratorio é in house. Qunidi via con esami urine, sangue. L'ultima analisi richiesta sono i raggiX, al torace. Per farli arriva un CiccioIngrassia dominicano in canotta, pochi capelli e un dente d'oro, appoggia il suo motorino all'entrata e mi chiede di seguirlo nella stanza. Ciccio rimane con me nella stanza (qui la chiamano quarto) sorride mentre mi chiede di stare fermo e sacrifica ai raggi i suoi ultimi capelli, mentre l'onda radioattiva ci rende trasparenti, me sulla lastra, lui e il suo dente nella mia memoria. Nessuna protezione per lui, né precauzione di sorta per me. Vabene, non si muore di soli raggiX, mi convinco. Attendo quindi i risultati e con il mio plico torno dal cubano, nella stanza accanto.

Di solito la figura del dottore rappresenta per i miei parametri una fonte piuttosto affidabile, in cui riporre generalmente fiducia. Mi spiego meglio: non vado dal medico prevenuto sul suo verdetto.

Il cubano sfoglia i referti, testeggia e sentenzia: ti devi ricoverare in clinica (sottinteso: la mia). Segue una piccola battaglia verbale sulla mia impossibilità al ricovero, al lasciare un lavoro che mi necessita come il pane, al mollare una famiglia che senza di me non ha sostentamento e giú, chi piú ne ha. Riesco a vincere la battaglia (ma non la guerra) con scorno del cubano, che infine si decide a darmi la diagnosi: polmonite. Io mi convinco; che diamine, tossisco e scatarro sembro un'ottuagenario incallito fumatore di LuckyStrike senza filtro.
Segue prescrizione di cocktails di farmaci vari (farmacia casualmente inhouse) e conto finale. Ottomila pesos. Centoquaranta euro.
Tutto sommato economico, ma il fulcro del problema é un altro.

In sostanza la percezione generalizzata é che in un sistema basato sulla compravendita di un servizio, il malato raprresenta una sorta di pollo da spennare (detta meglio, una specie di consumatore) in alcuni casi da spaventare, purché spenda il massimo possibile delle risorse. Senza assicurazione, una visita medica negli Stati Uniti mi sarebbe costata 700 dollari. Non avendo copertura, mi sono astenuto. Il medio al telefono mi fa la gentilezza di diagnosticarmi una bronchite. In conclusione, senza assicurazione sanitaria e senza soldi, la salute da queste parti non é un diritto.

Questo genere di esperienze fanno apprezzare il sistema sanitario nazionale, pur povero di mezzi e risorse, che offre un servizio pubblico, alla portata delle tasche di chiunque. Con le sue pecche, spesso qualitative, ma tutto sommato democratico, in qualche modo paritario.

Dulcis in fundo: dato che la mia supposta polmonite non passava, mi son visto costretto a chiedere altri consulti ad altri medici. Ho, nell'ordine: una bronchite (medico A), un'infezione alla gola (questa, perlomeno, visibile ad occho nudo: medico B), un'infiammazione dei reni (medico C).

- Posted using BlogPress from my iPad

sabato 7 maggio 2011

DVM4 - AmericAnabasi, parte3

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro

Stati Uniti - Orlando, Florida, Gennaio 2008

Parte3

Nuova mezz'ora di trasferimento sulla highway 4 con Tony, arriviamo alla Millenia Mall. Scendo con la mia inseparabile valigia trolley, ho tutto dentro questa appendice di me: computer, macchina fotografica, tremila euro (inutili, ma di scorta), vari effetti personali, il biglietto di ritorno. Per inciso la Mall è una sorta di centro commerciale, nel quale entrare, perdersi e spendere - oltre ai soldi - l'intera giornata: l'imperativo è consumare, tempo e dollari. Finalmente qui li trovo: gli americani. La Millenia Mall è una enorme struttura coperta su due piani, con circa ottanta negozi (immancabile l'Apple store), due piazze interne, cinque punti di riposo (tra uno shopping e l'altro il consumatore deve ricaricarsi in qualche modo), una ventina fra ristoranti e fast food. Il primo imperativo me lo detta lo stomaco. E' mezzogiorno, devo mangiare. La scelta (bendata) cade sulla Cheesecake Factory, un ristorante da circa duecentocinquanta posti. Provo a sedermi ad un tavolo, ma immediato un cameriere mi si para davanti: devo passare dalla reception, lì mi affibbieranno il tavolo. Non c’ero abituato, ma funziona. Finalmente riesco nel mio intento e, seduto, mi guardo intorno. L'America media si dispiega in tutta la sua potenza all'interno di questo microcosmo. La lingua parlata non è, sorprendentemente, l'inglese. Una buona metà degli utenti e dei camerieri si esprime in spagnolo. L'età media dei presenti è alta. Gli anziani hanno uno standard abbastanza categorico: sono tutti, uomini e donne, in pantaloncini corti e scarpe da tennis. Usciti da qui interpreteranno tutti Cocoon. Anche qui, molti sono obesi. Non faccio fatica a capire il perché: le porzioni sono uno schiaffo in faccia alla fame nel mondo. Ognuna, per i miei parametri, basterebbe per due buone forchette. Ma non è il particolare che coglie maggiormente la mia attenzione. Ogni avventore - ogni singolo avventore - pasteggia a cocktail. In sostanza: l'acqua è la prima cosa che viene portata, gratuitamente ed in quantità industriale, con ghiaccio. Mi viene il dubbio che sia un imperativo psicologico: le portate sono così grandi che ti senti piccolo, e devi ingrassare per forza, per reggere il confronto con le dimensioni. Insomma, arrivo all'ordinazione: si parte sempre dal cocktail (unica variante, la cara vecchia Coke), poi arrivano le portate. E' più forte di me, devo ordinare un MaiLai. Dopo pochi minuti mi arriva ed è buonissimo, credo il miglior cocktail che abbia assaggiato in vita mia. Il che la dice lunga sul mio stato di assuefazione. E' in quel preciso istante che sono fottuto e parto a razzo con il resto. Ordino in sequenza un Guacamole (un misto di avocado, spezie, pomodoro,cipolle) con tacos per antipasto e una bistecca (il menù recita: garantita Angus, la razza bovina migliore) con patate e contorno d'asparagi. Le porzioni, l'ho già detto, sono sontuose. Eppure non mi è possibile lasciare nulla nel piatto, e per il senso di colpa e per la fame. E non è tutto: la Cheesecake Factory è famosa per i suoi dolci. Il cheesecake alla fragola che ordinerò sarà il colpo di grazia ai miei sensi già provati: quando esco dal ristorante (conto: 44 dollari, circa 30 euro) la mia prima meta è la zona riposo, dove cado sconfitto per mezz'ora di trance ipnotica, con bolla al naso.
Al risveglio improvvisa sale la shopping addiction: devo spendere. Prima, la capatina al bagno è d'obbligo: lì rendo i miei 44 bucks alle fogne di Orlando, e rinasco pronto a nuova vita. Una volta fuori e con la leggiadria di una gazzella, mi esibisco in una folle corsa negozio negozio, che decurterà i miei beni di circa 500 (cinquecento!) dollari in regali. La sensazione è netta: ogni negoziante mi accoglie come fossi un Dio, la loro cortesia è addirittura urtante. Ed i maledetti bucks escono dalle mie tasche come mai prima nei miei gloriosi trenta qualcosa anni di vita. La risultante è che sono le sei di sera e sono rimasto con poco più di cento dollari nelle tasche. Fortunatamente domani mattina presto ho l'aereo che mi porterà via da questo paradisiaco inferno.
Esco, nonostante tutto felice, Tony mi attende nella sua Lincoln.
In macchina una malsana idea mi attanaglia. Voglio vedere un negozio di strumenti musicali. Tony, diligentemente, mi traghetta in uno grandissimo. E' il mio personale paese dei balocchi. Guardo Tony, ho il cuore gonfio di gratitudine, rimaniamo d'accordo che mi verrà a prendere dopo mezz'ora, oramai siamo conoscenti stretti, mi suggerisce di lasciare il mio trolley in macchina ed io seguo il suo consiglio. Non faccio in tempo a passare dieci minuti nel negozio che ho già deciso di comprare una chitarra acustica Ibanez di discreta fattura, la custodia per portarla in aereo, le corde di ricambio, i plettri (in confezione da dieci). Il tutto alla irresistibile somma di 150 $ (100 euro). Ovviamente non ho la cifra che millanto, inoltre devo pagare il fido Tony, ma ho sempre l'escamotage della carta di credito, che tiro fuori dal portafoglio felice come un bambino. Qui inizia il mio brutto quarto d'ora.
- La carta di credito non ha fondi (mi dice il commesso) non è che ha un'altra carta o può pagare cash?
- Nel mio portafoglio rimangono 138 bucks, amico. Il mio amico tassista arriverà fra poco, accettate Euro?
- Cosa sono gli Euro?
In quel momento realizzo che un boliviano se ne è andato con la mia vita ed i miei soldi nel suo bagagliaio, e che probabilmente il mio trolley è già finito nelle mani di qualche strafatto di coca, che sta saltando sul mio portatile a ritmo di rap, mentre casualmente apre la cerniera dove io ho nascosto la mia salvezza, 3.000 euro, e non capendo neanche che sono soldi veri, li sta usando per accendersi una sigaretta. In quel momento realizzo che sono Niente, che 138 dollari mi separano dall'essere buttato in mezzo ad una strada quando fra un'ora questo negozio chiuderà e mi toccherà dormire sotto un ponte, lontano dal mio albergo, con la chiara impossibilità di raggiungere l'aereo che mi avrebbe riportato sano e salvo a casa. Domani dovrò rubare qualcosa per avere l’occasione, se riesco a non farmi ammazzare, di essere arrestato e professarmi così cittadino italiano e poter chiamare l’ambasciata.
Sono nella merda fino al collo.
Passo in questo stato crescente di paranoia sette lunghissimi minuti, dopo i quali la Lincoln di Tony (il mio Tony) riappare all'orizzonte. Contratto con Tony e lo avviso: quando mi porterà all’aeroporto lo pagherò cambiando gli euro: quindi compro la mia chitarra scontata a 138 dollari (comprensiva di tutti gli accessori) e monto in macchina; sono salvo e felice, senza un dollaro in tasca, con una carta di credito inutilizzabile, amo il sacro popolo boliviano, ho una chitarra, domani cesserò di essere americano, con gran sollievo delle mie tasche.

venerdì 6 maggio 2011

DVM3 - AmericAnabasi, parte2

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Stati Uniti - Orlando, Florida, Gennaio 2008
Parte2

Mattina, nuovo giorno, nuova vita ad Orlando. Scendo nella hall ed entro nella sala breakfast dell’albergo con la mia valigia-trolley-porta-computer: lì mi rifornisco e rifocillo della mancata cena di ieri con la colazione dei campioni: beverone di caffè e pancake, di fronte alla tv perennemente accesa sul canale delle news, la CNN. Le primarie dei repubblicani e dei democratici tengono banco, la ex first lady ha appena sbaragliato i suo avversari principali (i più accreditati sono un afro americano che ha un nome da nemico numero 1 - Barack Hussein Obama - ed un più rassicurante John Edwards) in uno stato minore, il Michigan. Seguo per qualche minuto il dibattito fra i cronisti (uno trasmette dalla costa ovest, Los Angeles: si lamenta che laggiù siano le quattro di notte) e gli spezzoni del contenzioso che ha visto protagonisti i tre democratici. Abituato come sono al filtro delle notizie ricevute nel mio paese (dove solitamente un cronista del TG si occupa di fornirmi la versione dei fatti) il tutto mi appare straordinariamente fresco ed un poco naif, i candidati parlano una lingua rozza, triviale, terra terra, esprimono concetti basilari poco complessi, comprensibili anche per un bambino di sei anni. La politica americana, in questo spezzone che sto assorbendo e nel modo in cui la gente me ne parlerà, appare più vicina al tifo calcistico ed allo stesso tempo alla vendita di un auto: il candidato è il prodotto perfetto da vendere e deve anche colpire allo stomaco. Sono le otto, il mio taxi arriva in orario e conosco Tony, di origine Boliviana, il mio autista. Due minuti di contrattazione ed ecco che alla modica cifra di 120 $ ho chi mi scarrozzerà tutto il giorno fino a domani all'aeroporto. Quindi carico la mia valigia e partiamo: meta il mio incontro di lavoro.

Con il giorno gli occhi hanno modo di osservare Orlando, i sobborghi e il centro città, la downtown. Il cemento e l'asfalto, i palazzi e i grattacieli, le strade, tutto concorre ad una grande assenza: é un immenso pianeta disabitato, dove le presenza umana si intravede dentro le macchine, si immagina dentro le case, dentro le costruzioni che si elevano un po' ovunque, ma si incontra a fatica per la strade, della periferia come del centro.

Arrivo nell'azienda dove mi attendono, in perfetto orario. La prima cosa che accade è che vengo portato dalla receptionist di sessanta anni, alta, magra con capelli corti ricci e bianchi - si chiama Cindy - in una stanza piena di cibarie e cose da bere (analcoliche). Pare sia la rest room dell'azienda. Tutti gli impiegati ne usufruiscono, infatti almeno cinque persone (delle quindici che incontrerò) sono obese. Molto gentilmente vengo fatto accomodare, mi posso servire da solo. Non me lo ripeti due volte, sorella. Dopo 5 minuti di orgia mental gastronomica zuccherina vengo accompagnato in un'altra stanza, dove una tavolata di businessman mi attende in gloria. Hanno tutti dai 55 ai 70 anni e il cappellino da baseball in testa. Io ho 34 anni, un trolley in una mano, il beverone nell'altra, la bocca piena di noccioline e sono vestito come Tony Manero. Mi guardano come fossi un marziano, c'é da capirli.

Il meeting comunque prende l'abbrivio e funziona bene: faccio la mia parte e parlo per due ore fluentemente, racconto persino un paio di storielle divertenti, facendo ridere il team di sette persone che ho di fronte (forse per l’abbigliamento). Mi sento un pò come il barista al centro del ring che ieri mi ha servito il cheeseburger; un giullare. Ma se funziona per loro evidentemente funziona per me. Esco portando a casa buone possibilità di chiudere un contratto. Sono le undici di mattina e ho finito di lavorare. Tony il tassista boliviano mi aspetta fuori con la sua Lincoln, un macchinone che immagino bere allegramente galloni di benzina manco fosse spuma, senza minimo ritegno ambientale. Prima di uscire faccio tappa alla reception da Cindy, che ha provveduto gentilmente ad indicarmi su una mappa i luoghi da vedere a Orlando. Cindy è fiera del suo lavoro, mi ripete un paio di volte "sai, sono molto brava a dare indicazioni" con un sorriso che richiede una sola risposta "è vero Cindy, sei molto brava". Il risultato é comunque magro. Nella lista ci sono poche cose da vedere, qui a Orlandoflorida. Disney world é naturalmente al numero uno, ma io non sono interessato, ho passato l'età, almeno cronologicamente, quindi passo al numero due, la Millenia Mall, il centro più in della Florida. La situazione si prospetta triste e quindi chiedo lumi a Tony, in cerca della folgorazione verso Damasco. Il tassista, peró, è categorico; non c'é niente a Orlando, a parte le Mall. Di quelle, se voglio, ce ne sono in quantità e per tutte le tasche. La Millenia è la più esclusiva. Quando chiedo se esiste un centro storico Tony si gira e mi guarda come se avessi bestemmiato. Ok, vada per il Millenia Mall.

giovedì 5 maggio 2011

DVM 2 - AmericAnabasi, parte1

Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Stati Uniti - Orlando, Florida, Gennaio 2008
Parte1

Eccomi fuori dall'aeroporto, sono negli States; dopo lunga trattazione e gestazione, dopo essermi tolto le scarpe quattro volte, passando attraverso cinque scanner umani e tre bagagliani - con relativa multipla estrazione ed inserzione del portatile dalla borsa, dopo aver lasciato due delle mie dieci impronte digitali ad un grande archivio, dopo il relativo interrogatorio (chi sei, cosa fai, dove vai, quando vai, per quanto stai e perché fai) reiterato due volte con due differenti ufficiali, dopo aver rilasciato al suddetto mega archivio una foto segnaletica - ma il tutto, bisogna ammetterlo, con una rapidità che fa sentire cibo in uno scatolettificio automatizzato - ecco, finalmente ci sono, posso a tutti gli effetti perdermi in questo mare immenso che prende il nome di Stati Uniti, felice di sentirmi nessuno in mezzo alla marea. Che poi nessuno in mezzo alla marea lo ero tranquillamente anche prima, ma ora, da americani, è tutta un'altra storia. Detto fatto iniziano le prime azioni e riesco a tuffarmi in un cocktail bar interno all'aeroporto, di quelli con il barista al centro che fa il giullare e tutti i clienti in cerchio a fare I clienti. Ordino un cheeseburger e una birra, che altro? Sono ad Orlando, nel centro della Florida, ho una carta di credito, settecento dollari come paracadute: finché ci sono questi dovrei essere salvo. Esco ed ho la prima sorpresa, il clima non è poi tropicale, fa freddino e la prima impressione è di essere in mezzo al deserto. Non fraintendiamoci, presenze umane ce ne sono, cemento a volontà, ma qualcosa di indefinito suggerisce che la gestione dello spazio è differente; c’è più aria, e non la so spiegare in maniera differente. Cerco un taxi, non è una cosa semplicissima, potrei anche arrischiarmi in una vera avventura noleggiando una macchina per i miei propositi, ma l'immagine di me sdraiato in uno dei sobborghi di Orlando senza niente addosso tranne qualche livido e l'ultima verginità che mi rimaneva persa, mi distoglie dal proposito del pioniere. Taxi, quindi: dopo una piccola attesa un intermediario mi affibbia un bigliettino che tengo in mano dieci secondi. Prima che abbia avuto modo di capire a cosa serve, un tassista me lo toglie di mano e mi chiede dove voglio andare. Ho prenotato un albergo vicino al luogo del meeting, domani ho il mio lavoro da businessman che mi attende. Seconda sorpresa, sono fifty bucks per arrivarci. Cinquanta dollari e mezz'ora di macchina. Il mio gruzzoletto si assottiglia in fretta, e il mio stomaco langue, American Airlines non ha provveduto il cibo in volo (solo a pagamento, su tutti i voli: eccezion fatta per la business, è chiaro). L'albergo si chiama Extended Stay, non è il classico Hotel, non è un Motel, è una sorta di appartamento, provvisto di tutto eccetto quello che vorrei: cibo. Poco male, ci sarà qualcosa nelle vicinanze, vado alla reception e chiedo. Nuova sorpresa, sono nel mezzo del niente, sono le 10 di sera e dovrei prendere nuovamente un taxi, che cmq devo pre allertare perché venga a prendermi domani mattina. Risultato: a letto senza cena, ma genuinamente americano.

martedì 3 maggio 2011

DVM 1 - Storia Centroamericana Ordinaria


Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Repubblica Dominicana. Payita, costa nord.
Maggio 2011

E' ora di pranzo, la giornata è particolarmente afosa, e il vento che entra dai finestrini aperti della macchina che guido, non fa assolutamente calare il sudore. Cerco un posto all'ombra nel paesino che sto attraversando pigro, nel senso che procedo a dieci all'ora, senza fretta. E del resto bisogna non averla fretta, se si vuole sopravvivere sani di mente a un tempo che gira decisamente a ritmi diversi da quelli a cui sono abituato in Italia. Conosco il posto a menadito, si chiama Payita, avrà si e no duecento abitanti: lo attraverso giornalmente da diversi mesi, ma comunque spero di sorprendermi, mentre mi guardo in giro in cerca di vettovaglie, dato che lo stomaco reclama il suo. Le mie speranze non vengono deluse, e scopro quello che migliaia di passaggi a settanta all'ora mi hanno impedito di vedere: un piccolo Comedor (una cosa a metà fra un porchettaro ambulante e una tavernaccia) spunta in mezzo alle case diroccate. Incredibile aver messo un'attività lì nel mezzo al niente, commenta la mia parte razionale. Effettivamente: non ispira molta fiducia, fa solo HotDog (o almeno questo è l'unico cibo pubblicizzato dalla scritta sul muro) e dovrei essere a dieta, ma c'è l'ombra, quindi: sono già sceso dalla macchina e mi sto avviando al banco. Il Comedor in realtà è una stanza di due per tre, occupata nell'ordine da due ghiacciaie, due fornelli, un dominicano di un metro e sessanta di diametro (nel senso che è una sfera), un computer e, alle spalle della Sfera, una cassa di un metro di altezza, che emette a un volume assordante merengue. Mi avvicino, il bancone è la finestra dei sei metri quadri che dà sulla strada. Io e la Sfera comunichiamo a gesti, leggiamo il labiale, lui del resto pare non aver intenzione di abbassare il volume, ma allarga le mani, in chiaro segno di domanda. Cerco di scandire HotDog molto lentamente, ma Sfera non capisce, mi fissa con aria interrogativa. Alla fine di dieci secondi di immobilismo duale (da sfondo un forsennato suona un merengue classico, sempre a volumi vicini alla lesione del timpano) un lampo attraversa lo sguardo di Sfera, che scandisce molto lentamente al mio indirizzo HotDog. Ci siamo, missione compiuta.

Riesco con relativa facilità ad ordinare una birra (la Presidente, immancabile; deve il suo nome al vecchio propietario, il dittatore Trujillo), ormai la comunicazione è instaurata, quindi mi siedo sulla sedia di plastica, sul marciapiede della strada, finalmente all'ombra. Accanto a me, con la sedia in bilico, appoggiata al muro, dorme a bocca aperta un avventore sazio. Sul suo grembo i resti dell'HotDog; un suo braccio appoggia pesantemente su un'altra sedia in palstica. Lo guardo e non capisco come sia possibile. La cassa sparaMerengue dista dal suo orecchio meno di mezzo metro. Nel frattempo giunge un'anziana, si guarda intorno e, dato che tutte le sedie sono occupate, si risolve a togliere l'appoggio del braccio al dormiente. Niente. Il braccio cade inerte. Non lo sveglierebbe un masso in pieno viso. La vecchia si siede, mi guarda e sorride, spostando le labbra in cenno di saluto. Ricambio, sorseggio birra e attendo il mio ordine. Un HotDog muto. Altri avventori intanto si avvicinano, sembra essere questo un crocevia. Tutta vita. Stavolta sono due ragazzi (venti/venticinque anni, vestiti da rappers degli anni novanta: uno dei due è visibilmente armato) a chiedere a gesti (nessuno ha la pretesa di abbassare il volume e incominciare a scambiare parole al posto di gesti, naturalmente) due bicchieri di rhum; Sfera prende due bicchieri di plastica (modello alto) e ognuno lo riempie per metà. Il Pranzo dei Campioni. Ahimè uno dei due bicchieri è bucato, gocciola, e lo sfortunato possessore chiede (sempre a gesti) a Sfera una sostituzione di bicchiere. Quello sta per soddisfarlo, ma c'è un cambio in corsa. Il ragazzo trangugia d'un colpo tutto il rhum, e ne chiede un'altro. Sfera mi osserva. Io non reagisco, faccio il navigato. Ci sono diversi secondi di fermo immagine, poi Sfera pare riaversi. Riempie il secondo bicchiere di rhum, e inizia a preparare il mio HotDog sussurrato.
In quel mentre giunge una Guagua (l'equivalente di un mezzo pubblico, un camioncino sul quale si può montare in dieci/quindici - strippati all'inverosimile, sarebbe omologato per nove - per circa trenta pesos - meno di un dollaro - senza fermate prefissate: vi porta dove volete, e gli altri che viaggiano con voi attendono il loro turno). Dalla Guagua scendono due ragazze, e la vecchia accanto a me si alza, e mi saluta (a gesti, mi raccomando. Il merengue regna indiscusso), poi scompare dentro la Guagua. Quando la porta del mezzo si chiude, il dormiente alla mia destra si sveglia di soprassalto, rompendo l'equilibrio precario che lo legava al muro. Rischia di spalmarsi sul terreno, ma riesce con un colpo di reni magistrale a rimanere sulla sedia, prendere un cellulare, comporre un numero. Mezz'ora di stimpanamento non lo sfiora, una portiera in lontananza che si chiude lo spaventa. Ma io sono navigato, continuo ad addentare il mio HotDog. Nel frattempo i due amanti del rhum spariscono, rimaniamo io e Sfera. Il conto è salato. Settanta pesos. Un euro e cinquanta. Ringrazio alzando la mano e faccio per avviarmi alla macchina. In quel mentre i due del rhum sfrecciano in strada, sdraiati sui loro motorini. (la corsa sui motorini da sdraiati a pancia in giù è una pratica abbastanza diffusa, quaggiù). Penso al tempo asincrono in cui sto vivendo, e credo di essermi abituato.

domenica 1 maggio 2011

L’estetica della spazzatura.


La felicità, si sa, è un parametro variabile, di difficile misurazione, di fuggevole e incerta definizione, mentre l’infelicità è conclamata, onnipresente e democratica: appartiene a tutti. Anche della Serenità se ne cercano tracce sempre più ardue a trovarsi.
Questo nostro pare essere il tempo di molte incertezze diffuse, di molte domande e pochissime risposte. Una su tutte: siamo destinati ad essere felici? No.
Millenni di storia, progresso, conquiste tecnologiche e civili ci hanno consegnato una società globale popolata di uomini infelici. Ricchi di desideri, il novanta per cento dei quali sapientemente indotti, e quindi drogati ed assuefatti ad un limite che non basta mai, che non soddisfa mai: la dose deve essere maggiore ogni giorno, l’appagamento è sempre più lontano. Oggi il dolby surround mi soddisfa come una dose, ma domani starò male. Dopodomani vorrò un televisore al plasma. E così via, nella universalmente accettata teoria secondo la quale siamo ciò che mostriamo, siamo le cose che abbiamo. Al di là delle cose, dietro al castello di plastica, vetro, metallo, c’è un vuoto. Manchiamo noi. Finchè siamo in vita, ovvio: manca una essenza vitale e spirituale degna di questo nome. Quando poi sopraggiunge la morte, le cose che ci hanno rappresentato nella gran parte dei casi non finiscono come noi, ovvero nel dimenticatoio due metri sottoterra, ma vanno a popolare un universo nascosto e rivoltante, quello della discarica. Gli oggetti che eravamo continuano a vivere in discarica smembrati, riassemblati, inglobati e differenziati per finire sotto cumuli di terra e gabbiani spazzini, o in alcuni casi, di nuovo nei nostri polmoni, a creare nuova spazzatura mortale, dentro le nostre cellule impazzite.

L’Italia vive una stagione interessante, ricca di decadenza etica, scoppiata e resa evidente come diviene palese la spazzatura agli occhi quando non può più esser nascosta. Gli italiani sembrano averne abbastanza (molto più che in passato) dei politici, delle ferrovie, dei giornalisti, delle banche, delle autostrade, della morte delle idee, dell’illegalità diffusa ed accettata in ogni – singolo – rapporto. L’illegalità, a tutti i livelli, sembra essere il vero collante sociale. L’antistato appare molto più forte, in tutte le sue innumerevoli emanazioni, dello stesso stato, incapace a fronteggiare l’ondata e soprattutto a fornire un esempio etico perseguibile. L’ultima campagna elettorale ha visto una proliferazione di massa dei candidati. Segno di un ravvivarsi della politica e della partecipazione civile, si potrà dire. Ahimè è esattamente il contrario.
Là dove si ha un candidato ogni sessanta elettori, c’è un palese ed endemico spregio dell’etica. Il voto viene barattato in base alla conoscenza, alla prossimità spesso parentale, non certo in base ad un programma, a una idea.

“Spazzatura”, dicono con spregio i vertici della nostra classe politica quando le intercettazioni vengono rese pubbliche. A me pare che la spazzatura abbia sempre una sua dignità: quando rappresenta noi stessi, quello che non siamo riusciti ad essere come uomini e che lasciamo dietro di noi; quando, nascosta allo sguardo ritorna prepotentemente a galla ricordandoci la nostra apparenza meno nobile; quando rappresenta un punto debole nella catena innaturale, che si vuole perfetta, dell’esistenza sociale del consumatore uomo; le immagini dei sacchi di spazzatura nelle vie di Napoli hanno una loro estetica che rappresenta meglio di ogni altra la vita umana per come l'abbiamo costruita.

La spazzatura nel terzo mondo - o nelle rampanti nuove potenze (Africa, Centro e Sud America, India, per citare esempi di cui ho diretta esperienza) - è invece radicalmente diversa. Se da noi viene occultata, la spazzatura del terzo mondo è esposta, esibita senza pudore agli angoli delle strade, nelle spiaggie, in campagna. Una vera dominazione della plastica regna indiscussa in questi paesi, dove - al contrario che da noi - c'è poco di superfluo nella vita, non ci sono surround, televisori al plasma o 3d. Anche qui, i rifiuti ci rappresentano, sono un nostro prodotto (per assioma inutile) che invade il mondo, lascia traccia di noi e del nostro passaggio.