mercoledì 31 ottobre 2012

Lo spettacolo che non ci sarà mai

“Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti, uomini e donne siamo attori. Con le nostre uscite e le nostre entrate. Un uomo, nel corso della vita, interpreta molte parti" 
W.Shakespeare - As you like it

Lo stato dell'arte, come molte altre cose nel nostro paese, è sconfortante. Potrebbe sembrare un argomento da poco, considerazioni da farsi seduti su una poltrona di velluto mentre si sorseggia un bicchiere di cognac davanti al fuoco, in compagnia di qualche amico gentleman. Invece no, con un impeto di orgoglio sostengo che siano problemi di strada, quotidiani, che riguardano ogni singola persona che vive in questo paese. Certo, ognuno è la misura del suo punto di vista, si tende ad assolutizzare le proprie priorità ed emozioni, come se da esse dipendesse il mondo intero: eppure credo che quello in questione, sia un problema etico e morale fondamentale. 

In questo caso, e parliamo del Teatro, pare che il nostro tempo (nazionale) abbia perso totalmente la possibilità (e la capacità) di raccontarsi. Non è un impoverimento da poco, dato che la narrazione teatrale serve da specchio per il presente e per i posteri. 
Cosa è - o dovrebbe essere - il  teatro se non questo? 

In Italia, le stagioni teatrali di prosa si contorcono cercando pubblico attraverso la ripetizione di classici. Si mettono in scena Pirandello, Shakespeare, si osa (!) con Pinter. Scrittori contemporanei nostrani? Non pervenuti. Esistono? Certo. Ma non potendo ambire alla messa in scena se non sporadicamente e per elemosina di qualche scriteriato che abbia deciso di eseguire un loro copione (destinando lo spettacolo ad un sicuro flop), certamente non possono pensare di reputarlo un lavoro, di farne un mestiere. Se mai nascesse un Shakespeare odierno in Italia sarebbe a fare il lavapiatti, a vita. 

E perché mai questo problema dovrebbe essere importante, si obbietterà. In fondo il teatro è vestigia del passato, un obsoleto passatempo snob, costoso e patinato. E a raccontarci per come siamo ci pensano altri media: il cinema, internet, i libri. Bene.
Ora, senza voler essere pedanti, a queste obiezioni ci sarebbero da opporre alcune argomentazioni. 
Primo: tutti questi media non esistevano neanche quando il teatro già era maturo e codificato nelle sue forme. Ed ha resistito per 2500 anni. 
Secondo: il teatro assolve a una funzione diversa; non è cinema, non è televisione, non è internet, e non è - evidentemente - carta stampata. Il Teatro ha da sempre, fra le altre, la non demandabile funzione sociale (da Eschilo a Shakespeare, da Moliére a Pirandello, a Brecht) narrativa. Si va a vedere teatro per avere uno sguardo (non mitizzante, fantastico o esaltante) sul tempo presente, su ciò che siamo, sull'identità che abbiamo, come singoli e comunità.
Terza argomentazione: fuori dai confini patri, e non per fare il solito esterofilo, il teatro gode di grande vitalità, originalità. Il centro e sud America godono in questo campo di un periodo particolarmente florido, tant'è che Ronconi (per chi non lo sapesse, uno dei grandi vecchi registi del teatro nostrano) ha messo in scena un autore contemporaneo argentino (Rafael Spregelburd, il 2 e 3 marzo 2013 al Teatro di Pisa) ; per non far parola del nord America, dove il sistema teatro funziona e sopratutto produce da anni spettacoli inediti contemporanei, trovando risorse produttive e pubblico a goderne. E questo porta forse al vero nocciolo del problema. 

Discutendo in questi giorni con il mio amico e collega Simone sullo sconfortante stato dello spettacolo in Italia, abbiamo ipotizzato questa soluzione e ci è parsa sensata e rivoluzionaria - e ovviamente inattuabile. Dato che in verità il sistema teatro in Italia si basa molto, e certo in forma massiccia si è basato negli anni passati, sui contributi che lo stato destina al settore, e che l'iter seguito dai soldi pubblici, anche in questo caso, e le scelte artistiche seguite, sono imbarazzanti forme di clientelismo, propongo il seguente. In Italia tutti i teatri dovrebbero chiudere, i fondi destinati allo spettacolo dovrebbero essere eliminati, azzerati: il pubblico cancellato e riformato. Esempi che supportino la tesi ve ne sono, vorrei citarne alcuni.

Vogliamo parlare dei compensi dei direttori di orchestra, o del divario fra il loro compenso e quello di un orchestrale? Vogliamo dire che nel cento per cento dei casi un ente lirico è in rimessa? Che vengono bruciati soldi pubblici per foraggiare e mantenere - male - a galla un sistema fallimentare? Che l'allestimento di un'opera lirica costa in media mezzo milione di euro e ne guadagna un quinto quando va bene? Che - a fronte di tutto questo - oltre la metà (!) dei contributi statali vanno agli enti lirici, e non ne esiste uno (UNO) virtuoso? Che in sostanza, questo spreco di soldi (nostri, in quanto pubblici) si traduce spesso in un vero e proprio ladrocinio istituzionalizzato? In tempi in cui la rottamazione va di moda, non sarebbe il caso di fare un poco di pulizia nel settore?

E la lirica è solo il caso più eclatante di un intero sistema da azzerare, da seppellire in quanto stantio,  morto, senza vita. Lo ammetto, amo la lirica, credo sia un valore aggiunto della cultura Italiana e un passaporto importante da coltivare, preservare, innovare e sviluppare. Ma la lirica dovrebbe - come tutto il resto del teatro Italiano - fare i conti solo con il mercato, e quindi costruirsi un pubblico. Lo stato deve smettere di comportarsi da narcotrafficante, drogando il sistema e portandolo alla morte, con l'unico risultato di foraggiare i soliti, aggrappati alla torta anche fino alle ultime briciole, anche quando il dolce è ammuffito. 

E infine, il pubblico, questo alieno. Il pubblico italiano, storicamente e, direi, geneticamente, è abituato alle compagnie di giro. In breve lo spettacolo viene vicino casa mia, altrimenti non mi muovo. Credo che le società, per quanto dotate di mezzi e possibilità, che non facciano i conti con questo assunto e tentino di impiantare in Italia un modello Broadway (o Londra), in cui lo spettatore si muove per andare a vedere lo spettacolo, siano destinate, ancora per molti anni a venire, al fallimento. Ma questo pubblico è anche disabituato alla novità. Non la conosce, la guarda con sospetto. Vive la produzione inedita - in particolare in momenti di crisi, dove l'impoverimento è prima di tutto economico e poi etico e morale - come una noia. Ed anche in sala a vedere altri spettacoli, più blasonati, si stanca. I dati sono chiari: il pubblico è impoverito, disinteressato, annoiato. Con la risultante che se i teatri domani chiudessero davvero i battenti, non avremmo questa sommossa popolare. Certo, avremmo molti disoccupati. Molti pianti. Flagellatori professionisti in strada ad urlare alla morte della cultura. E, un minuto dopo, le forze interessate, che veramente credono alla cultura teatrale, come mestiere e come funzione, a cercare di rimettere in piedi dalle fondamenta l'edificio crollato, a tentare una rifondazione di senso dello spettacolo in Italia. 
Ed allora perché non destinare, da subito, i 200 milioni di euro del Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) ad altro?  

lunedì 15 ottobre 2012

Venti anni di plastica

All'inizio degli anni novanta terminavo la mia istruzione superiore e mi affacciavo, con la boriosità dei venti anni, a cambiare il mondo, di diritto. Una grande fiducia nella mia generazione accompagnava quel periodo: i padri, come sempre, avevano torto e fallito - in più le inchieste giudiziarie in corso lo stavano certificando -, noi avremmo fatto più cose, meglio. Furono gli anni di anni di tangentopoli, del cosiddetto crollo della prima repubblica, della scomparsa repentina degli uomini di punta della classe politica, che per quaranta anni avevano guidato, bel bene e nel male, l'Italia. 
Fu come se si fosse aperto uno spazio vitale nuovo. La tipica "uccisione dei padri" stava accadendo sotto ai nostri occhi, per implosione il castello stava crollando. La speranza di un sistema nuovo, basato sul merito, foriero di opportunità, in cui ognuno di noi novizi avrebbe potuto dimostrare il proprio valore, in un gioco aperto e ad armi pari con la società, illuminava  la prospettiva. Grandi aspettative nel futuro animavano, ne ero certo, non solo quelli come me, che si affacciavano a dare un'occhiata alla vita che sarebbe stata, ma anche i lavoratori di lungo corso, gli imprenditori, le associazioni, la società - quella stessa che aveva tirato le monetine ai propri politici, cacciandoli. 

La discesa in campo dell'uomo nuovo, Silvio Berlusconi, venne a catalizzare questa aspettativa. Certo, il discorso con cui si presentò alla nazione fu un capolavoro di retorica, capace di portare a catarsi un intero paese. Un monologo degno del miglior cinema. Guardarlo oggi fa una certa impressione. La frase più comune fra gli estimatori della prima ora era: "farà dell'Italia ciò che ha fatto con le sue imprese". Il che, con il senno di poi, è esattamente quello che è accaduto.

Sono passati venti anni, e la rivoluzione - prima di tutto estetica - che ha piallato un mondo azzurro, da televendita, sorridente dallo schermo quanto dolente nel privato, è il substrato di coltura nel quale hanno potuto attecchire, antitetici alle aspettative ed alle speranze, malaffare, corruzione, clientelismo in misura maggiore di quella che credevamo debellata con le inchieste del novantadue. In questi venti anni di plastica un sorriso ebete rispondeva beato ed ottimista, mentre la stessa possibilità di futuro per una intera generazione veniva barattata e scambiata con una pesante e criminale restaurazione, aumentata, dei canoni di malaffare pretangentopoli.

I venti anni in cui una intera generazione avrebbe dovuto e potuto accedere al mondo del lavoro, in maniera certo dura e competitiva, ma chiara e meritocratica, si sono trasformati in venti anni di deserto, in cui qualsiasi seme avrebbe avuto difficoltà a germogliare. Venti anni in cui alla mia generazione è stato consegnato lo scomodo ruolo di zecche (bamboccioni, tanguy, cocchidimamma, etc), portate a vivere sfruttando per lo più le rendite raggiunte dai genitori, nella concreta impossibilità di costruire famiglia, casa, futuro. 

La classe dirigente di questo paese, tutta, non è immune da responsabilità. Chi avrebbe dovuto guidare il rinnovamento come chi era all'opposizione: la loro dialettica avrebbe dovuto favorire lo sviluppo di un sistema più corretto ed ha finito sistematicamente per scambiare il bene comune con il particolare. C'è un'accusa pesante che pende sulle loro teste: la sottrazione fraudolenta di venti anni è un debito generazionale verso un popolo intero, e quella che è stata ed in gran parte ancora oggi è la nostra classe dirigente (politica e imprenditoriale, spesso gli uni a braccetto con gli altri) deve essere chiamata a risponderne. 

L'arroganza con cui ancora oggi gran parte di coloro che hanno partecipato, in posizioni chiave, alla storia recente Italiana, accolgono le critiche, lo sdegno del popolo, i tentativi di messa in discussione dei loro ruoli (che forse ritengono essere eterni, o ereditari) appare tanto più odiosa quanto è di lungo corso la loro esperienza ai vertici. Alla fine la domanda resta una e banalmente disarmante: dove erano in questi venti anni e cosa hanno fatto?