giovedì 6 dicembre 2012

L'assordante rumore del vuoto


Nel 2007 mi decisi ad iniziare questo blog, stupito e incuriosito da un argomento divenuto noto come "l'apocalisse Maya". Mi parve un buono spunto per affrontare alcuni argomenti sul nostro modo di essere, di agire e relazionarsi con il mondo reale e virtuale che abbiamo intorno. Tutti questi argomenti sottendevano più o meno esplicitamente una domanda; Se effettivamente fossimo alla fine del mondo, come potrebbero cambiare i nostri comportamenti e rapporti, come potremmo occupare il tempo, consapevoli che la fine di ogni cosa si sta inesorabilmente avvicinando? 

Non pensavo certo di influire su nessuno, mi piaceva l'esercizio un po' fine a se stesso, di cercare di guardare le cose da un punto di vista differente.

A distanza di questi anni, ovviamente, nessuno dei nostri micro e macro modelli è cambiato e queste congetture anzi si sono volta volta scontrate con un mondo in continua accelerazione, teso a produrre di più, consumare di più, drogato di beni al punto che le crisi economiche sembrano essere in relazione al nostro corpo sociale come l'astinenza sta a quello di un eroinomane. 
Insomma, pare proprio che non siamo intenzionati a fare passi indietro, convinti che siano "dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive". Certo, siamo in molti a pensarla diversamente: ma non siamo efficaci. Non lo siamo stati. Chi per inedia, chi per inabilità, chi per troppa passione.
Fatto sta che l'epoca, come un fiume in piena, ha esondato: è troppo ricca di input, di rumore, di interferenze, di connessioni, relazioni reali o virtuali, è eccessiva nei beni, nelle immagini, nelle opinioni, è strabordante d'arte, visioni, religioni dell'anima, del cibo, del corpo: è un epoca in cui tutti i limiti sembrano valicati, le idee sono iperframmentate in miliardi di rivoli, ognuno con un suo diritto ad essere, la peculiarità è esplosa in tutto il suo caotico splendore, ingovernabile e indeterminabile. Le teorie sono totalmente relative, così come le esistenze, la morale. 
Tutto è troppo. C'è troppo di tutto, e quindi non c'è niente. E questo niente produce l'assordante rumore di un vuoto. A cui è necessario contrapporre un assenza di rumore nel quale ritrovare ricchezza di significati. 

La necessità di silenzio, la rabdomantica ricerca di assenza di input, appare come un dovere. C'è un bisogno, neanche troppo sotterraneo di quiete, una spinta istintiva, quasi fisiologica verso l'annullamento di ogni stimolo, eccitazione, rumore.

E forse è questo, tesi e accelerati come siamo verso la fine del mondo, il futuro più auspicabile.