domenica 1 giugno 2014

The Imago

L'immagine fa parte di noi, sin da quando nasciamo. La nostra epoca, da tempo, convive con l'immagine, il che ci ha consentito di avere una memoria collettiva basata sulle stesse immagini. La funzione mediante dell'immagine ci consente di conoscere realtà di cui altrimenti non avremmo esperienza. E questo è forse il punto principale del mio piccolo ragionamento, ovvero che l'immagine ci trasmette solo una porzione dell'esperienza, eppure si pretende come reale. E' parziale, come tutti i racconti, e non oggettiva, come tutti i punti di vista. Ma per decenni è stata assegnata a questa forma d'arte relativamente giovane (circa 170 anni fa nasceva la fotografia) una funzione assoluta, veritiera.

Eppure c'è stato un tempo in cui non esistevano immagini, e la nostra esperienza era limitata a ciò che conoscevamo direttamente, o a ciò che ci veniva raccontato. La riproduzione della realtà, i quadri, non avevano la pretesa di essere reali. Ma una fotografia (prima di photoshop) è diversa: porta con se un dato: quel fatto, quella persona, quell'oggetto, sono realmente esistiti di fronte all'obiettivo della macchina fotografica. Questa rivoluzione visiva e mentale, io credo, ha cambiato radicalmente tutto il nostro approccio alla vita, rendendoci a tutti gli effetti drogati di immagine, dipendenti da esse e mai assuefatti. Rendendo l'occhio il principe dei sensi, a discapito di olfatto, tatto, gusto, udito.

Sono questi i motivi che mi hanno spinto a scrivere The Imago, a cercare una storia che mi permettesse di analizzare questo meccanismo: ho cercato di parlare di noi, oggi, prendendo come spunto la vita di uno dei più importanti fotografi di fine '800: Charles Lutwidge Dodgson.

sabato 17 maggio 2014

Il Cinema è morto, viva il Cinema.

Oggi a Cannes première del film Relatos Salvajes, dell'argentino Damiàn Szifron. Presente. L'invito - che ho ricevuto dietro richiesta - impone l'abito da sera, per le signore. Lo smoking (o tuxedo) per i signori, pena l'esclusione dall'entrata. Ovviamente non ho il tuxedo. Lo ammetto, non ne ho mai messo uno in vita mia. Pazienza, mi arrangio e trovo chi lo affitta. Mi trasformo in un pingue pinguino, e mi avvio alla serata di gala. Mentre cammino, sbatto - letteralmente - in Abel Ferrara, che prosegue dritto, nel senso opposto al mio, curvo sotto la sua gobba, senza neanche girarsi per maledirmi, accompagnato da una giovane valchiria bionda in abito da sera e tacco vertiginoso. Fanno un effetto strano, da episodio fantasy, tipo Game of thrones. Bah, il film sta per iniziare e accelero il passo. Dopo una breve coda di accesso, sfilo quindi sul red carpet, dove è tutto un tripudio di selfie. Le persone sembrano veramente una moltitudine, e quando entro in sala capisco perchè. Il Grand Theatre Lumière offre 2300 posti (comodissimi). Ed è esaurito, come tutte le premiere del festival. Lo schermo, di 30 metri, trasmette le immagini del carpet, fuori, dove sfila il cast del film. Boato improvviso. In sala entra il regista del film. Poi Almodovàr, che scopro essere il produttore. Pochi convenevoli e nessun discorso: il film inizia.

Si fa un gran parlare, di questi tempi, della moltiplicazione degli schermi. Di come i contenuti stiano esplodendo su piattaforme multiple, telefonini, tablet, computer, televisioni. E di come questo stia cambiando l'industria del cinema,  mettendo in discussione la distribuzione dei film in sala, ridefinendo un futuro che nessuno è in grado di predire. E tutto questo è vero. Ma quello che succede nella sala grande del Palais è qualcosa che è insostituibile.

Inizia il film e cala il silenzio, come sempre. Lo dico chiaro: il film è una bella commedia, ben scritta, molto divertente, molto cattiva, mai scontata, recitata molto bene da un bel gruppo di attori, con una buona regia. Cosa chiedere di più. Mano mano che la storia (le storie) del film si dipana (no) nella sala accade che l'esperienza si intensifica. E c'è un motivo preciso per questo.

E' un esperienza condivisa con duemilatrecento persone.

Il teatro cinematografico, quel luogo che noi chiamiamo sala, è a tutti gli effetti un luogo di condivisione. Non si tratta di quello che accade sullo schermo. Non è più un'esperienza privata fra me e l'immagine, o meglio, non è solo questo. Si tratta sopratutto del pubblico; di una chiara, poderosa, percepibile partecipazione collettiva ad un'emozione profonda (che sia paura, riso, commozione o altro non fa differenza), provocata - quando il film funziona - ad arte. E maggiore è il pubblico più forte è l'onda emotiva.
Per questo Cannes è un luogo sacro per il Cinema quanto la Scala lo è per il teatro. Non per quello che accade sul palco o sullo schermo, ma per la reazione che questi accadimenti provocano nella sala. E questa di Cannes è una sala sontuosa, appassionata, che applaude, ride, reagisce al film, come un corpo unico.

La moltiplicazione degli schermi rischia di far sparire tutto questo? Non lo so. E' possibile. Il consumo dello schermo diversificato è, nella gran parte dei casi, solitario. Ed il rischio di perdere il senso di una grande esperienza collettiva esiste. Non posso dire certo che nel mio paese il teatro ed il cinema godano di grande fortuna. Il pubblico è diminuito. Ma. Altri paesi dimostrano trend differenti, in netta crescita. Nonostante ed anzi, grazie alla diffusione digitale. C'è speranza. Il cinema è morto? Viva il cinema.


venerdì 16 maggio 2014

Raccontare o morte.

Eppure c'è qualcosa che non convince. Fare questo mestiere è una scelta, questo è indubbio. Che si faccia con l'obiettivo pecunario in testa è falso. Non abbiamo passaporto americano. Che questo lavoro causerà sempre una sequela di problemi personali, familiari, economici, di salute, psicologici è altrettanto conclamato.

Nel novantanove per cento dei casi il genere umano si rivolge a te guardandoti come un essere alieno in un mondo di folli. I folli che fanno parte del tuo mondo si rivolgono a te come a un confessore, un risolutore, un analista. Tua moglie si rivolge a te come un'apparizione istantanea in un mare di assenza. Le tue figlie ieri lasciavano le poppate, verso le prime pappe. Oggi si rivolgono a te per la paghetta e lasciano il ragazzo. Nel frattempo Il tempo che impiegherai a raccontare la storia che devi raccontare (e che hai scelto) sarà speso fra tribolazioni, maledizioni e bestemmie. E questa lista non proprio lusinghiera vale per tutti, nessuno escluso, i produttori, registi, creatori di cinema.

Quindi perchè tutta questa gente, al mercato di Cannes?
Quale insana forma di masochismo fa scegliere a tutte queste persone la vita che fanno?

Cannes è il luogo dove, dietro la facciata del red carpet - su cui sfila l'1% di questa industria, che crea il 100% del desiderio popolare, vivono e si incontrano i rappresentanti - migliaia - della categoria sofferente di cui sopra: produttori, sceneggiatori, registi, e via dicendo. Parlano di storie. Cercano storie. Vendono storie. Si raccontano storie. Ed ogni storia viene raccontata, spesa come se fosse la migliore del mondo.
Nei maggiori festival, i film in vendita sono circa cinque/seimila. Che devono essere venduti e raccontati. Altrettanti, con una stima al difetto, sono i film che verranno raccontati ma che non esistono ancora.
Una mole gigantesca di racconto. E forse è questa la chiave.
Il narrare.
Questa attività umana che è probabilmente la vera essenza di noi.
Il racconto è multiforme, ma persistente. Ovunque. Su uno schermo, attraverso scambi informali fra due persone, nella maniera di vestire, di portarsi, nella costruzione di un brand, nel mito che regna introno al cinema. Tutto è racconto. Nell'esatto istante in cui abbiamo una relazione (o pensiamo che ne avremo una), abbiamo un pubblico. E raccontiamo, sempre e comunque, in relazione a un pubblico che immaginiamo recepisca o recepirà. Accade in ogni manifestazione umana. Il cibo è racconto. La moda è racconto. L'arte e la cultura sono, ovviamente, racconto. Per questo non possiamo farne a meno. E' la radice dell'uomo. E la settima arte è la maniera più articolata e complessa di raccontare.
Noi siamo qui per raccontare per mezzo dello strumento più complesso da gestire che esista: il cinema.  

A proposito, oggi anteprima mondiale di Dragon Trainer 2. Sul tappeto Cate Blanchett, bionda, algida. Lei davvero aliena. Molto, molto più rilassata rispetto a Nicole Kidman, abbracciava un pupazzo di drago.

Domani anteprima di Relatos Salvajes, in concorso, che andrò a vedere.

giovedì 15 maggio 2014

Mutazioni cinematiche

Seconda giornata di festival, workshop e incontri. Cannes si conferma essere un ossimoro, fervente e sdraiata allo stesso tempo. Il sole di fine maggio che sta omaggiando questa parte di mondo rende ogni cosa migliore, gioiosa. It's cinema power! Oggi è la giornata del pamphlettone Turner, di Mike Leigh (noto al secolo per Segreti e Bugie del 1996), la storia del noto pittore inglese di inzio '800. Produzione multimilionaria. Chissà quanto sarà costato questo effetto speciale di soleggiata allegria agli studios. Chissà se, domani, quando incomincieranno ad atterrare sulla croisette i film polacchi, turchi, italiani, avremo - non potendoci permettere altro - pioggia e depressione. Tutta questione di budget. Per inciso, un film italiano medio si attesta intorno ai due milioni di euro di budget. Uno inglese (o francese) circa cinque. Uno medio americano 10. Holliwood 50.

La domanda - atavica - è: sappiamo raccontare storie che coinvolgano un pubblico vario, non necessariamente italiano, non necessariamente europeo? Una solida storia da raccontare non dovrebbe trascendere i confini geografici? I nostri sceneggiatori sanno/possono/vogliono fare questo esercizio? Domanda retorica. Ma ottima motivazione al crescente gap di budget nostrano. Non essendoci un audience per le nostre storie, produciamo storie per "noartri", che parlano de noartri. Autoreferenziali e, sopratutto, vecchi e decadenti. Il pubblico medio in sala (nell'unione europea) è over 50 (in Italia, probabilmente di qualche anno più anziano). Pubblico medio. La maggiore cinematografia mondiale (Bolliwood) conta su un miliardo di potenziali spettatori, la cui età media è sotto i 30. Ahimè, ne sono certo, domani piove.

La croisette si popola, intanto, di nuove creature.
O meglio, delle trasformazioni bioniche delle creature di ieri. La casta dei paria, i sempiterni amanti della foto ricordo, si sono dotati - presi da un impeto di scaltrezza un po' partenopea - di centinaia di scale, di ogni foggia e forma, che - in sostanza - assolvono alla funzione molto pratica di poter avere una foto che non sia della nuca del paria di fronte. E così, con un effetto molto straniante, in questa moltitudine ordinata e multifome che è il festival di Cannes, sono apparse di fronte al Palais du Festival questi picchi in alluminio colorato, a disegnare un orizzonte di mini montagnole scheletriche, che a breve saranno prese d'assalto dai loro propietari. Immagino l'idea debba essere venuta a qualcuno per primo. E immagino orde di over 50 dotati della loro scala-da-cannes, che affittano gli scalini a un tot al metro d'altezza.
All'arrivo di Thimoty Spall (l'attore icona, di Leigh, già osannato come avesse vinto la palma d'oro), vedo già il quadro: moltitutidini belanti e sbavanti, nascoste dietro ai loro ubiqui mezzi di ripresa, creano un muro tecnologico di schermi, poggiato alla meno peggio su piccole vette d'alluminio colorato.
Chissà se Turner avrebbe mai voluto dipingerlo.

mercoledì 14 maggio 2014

La differenza della croisette


Blando, attraversando una variegata umanitá suddivisa in caste, mi dirigo verso il festival più mondano e modaiolo del pianeta. Ci sono quelli in smoking e occhiali da sole (e sono tanti), piazzati intorno ai tappeti rossi, vero luogo del delitto del festival. Fra poco la Kidman e Tim Roth sfileranno, con facce meste, per la prima di Grace. Forse hanno il presagio del flop. Poi ci sono quelli che cercano disperatamente un biglietto, un last minute per entrare a vedere un film che non resterá negli annali. Anche questi sono tanti, accalcati intorno alle transenne, perennemente dotati di camera, telefonino o ipad, a immortalare le nuche delle moltitudini anismanti di fronte a loro. Poi c'è la casta a cui appartengo, mediana. Fregiati da un badge, una targhetta identificativa con tanto di foto - appena arrivi te ne scattano una: il badge ti fa accedere ovunque, alle proiezioni come alla marchè, il mercato. Siamo invisibili, e tutti invariabilmente qui con un solo obiettivo: fare il prossimo film o piazzare quello giá fatto. E siamo, anche noi, in tanti. Produttori principalmente, poi sceneggiatori, registi (pochi, a dire il vero), venditori, distributori. Tutta la fiumana che compone la parte business. Il nostro credo é: building connections. Come un mantra. Le connessioni, le relazioni sono tutto. Hai un incontro alle otto in ascensore. Preparati a presentare il film (pitching) in meno di 30 secondi. Se poi scopri che stavi raccontando la grande opera al tizio che porta i giornali ai piani, pazienza, tutto fa. Mollagli un biglietto da visita, comunque. Magari porta il giornale alla porta del finanziatore giusto e preso da un impeto divino racconta la tua storia e molla il tuo biglietto da visita, tutto fa. Certo, e con grande differenza rispetto al festival di Berlino, qui tutto si srotola in maniera più rilassata. Se la berlinale è una corsa continua, con tempi contingentati, dove ogni dettaglio sembra pompare verso l'assertivitá quasi militaresca (per caritá. È sempre il magico mondo del cinema) sulla croisette sembra di essere alle bahamas. Sará la stagione, sará la brezza del mare, eppure. Cannes permette di bere un aperitivo, mentre guardi in lontananza il roboante carrozzone mettersi in moto, e - tutto sommato - questo fa la differenza.

mercoledì 12 giugno 2013

Tristi banalità di un paese scontato? Un possibile riscatto


Scritto da: Eva Guidotti

Credo che il declino di una nazione abbia le sue radici nella decadenza della società, e ancor prima nella crisi del singolo individuo, tassello primario e imprescindibile del tessuto sociale.
L' Italia sta sicuramente percorrendo una strada in inesorabile discesa, persa tra nuovi poveri, politici a volte confusi a volte ostinatamente determinati a mantenere il proprio status, e falsi valori. Mai come ora, paradossalmente, mi sento vicina a questo mio paese, proprio perché è in agonia.
E l'agonia è l'ultimo stadio di una malattia molto lunga, con radici culturali estremamente solide e invasive.

Un pomeriggio qualunque in un' antica merceria del centro storico della mia città.

Sto comprando nastro di raso nero per un'occasione speciale.
Due ragazze sulla trentina (non due signore anziane piene di vecchi pregiudizi) parlano alle mie spalle. Io ascolto di sfuggita...

Ragazza 1: “ L' altro giorno al mercato volevo comprare una maglietta e mi sono fermata ad un banchetto. Ne ho presa una carina ma controllandola ho visto che non aveva un bottone e aveva fili che pendevano...poi ho guardato il proprietario e ho visto che era cinese!..”


Ragazza 2: “Ah! La roba cinese è scadente si sa...”


Ragazza 1: “ Sì ma senti...ho lasciato stare e mi sono diretta al banco accanto..ho preso una maglietta, mi piaceva e a prima vista era tutto ok...a casa ho visto che era scucita! Eppure il proprietario del banco era NORMALE, NON CINESE, italiano!”


A questo punto mi giro: primo piano sui volti di queste due giovani ragazze, carine, molto curate,  a prima vista anche simpatiche. Divento triste e arrabbiata ma esco senza dire niente. Una volta fuori sono ancora più triste e arrabbiata, ma con me stessa, che rappresento alla fine l'Italia che sta zitta e lascia correre.

Finché chi non fa parte del “nostro” piccolo mondo per differenza di pelle, cultura, lingua, tendenze sessuali sarà chiamato ANORMALE da una giovane ragazza dove vogliamo andare??!! Qui, dove siamo ora, piantati in uno stato granitico di immobilità, in un sistema governato da un pensiero volto a  mantenere il nostro piccolo giardino verde (che comunque sta marcendo), chiusi in una mentalità retrograda e sempre e comunque mafiosa. Vogliamo morire senza sbalzi, piano piano, stando tranquilli.

Ragazze della merceria sveglia! I vostri stracci sono quasi già tutti di produzione cinese, o cuciti con lo sfruttamento del lavoro minorile da parte delle multinazionali, detentrici del potere a livello mondiale, e anche da parte delle nostre aziende italiane, che per abbattere i costi vanno a produrre in America Latina, in Asia  o nell'Est Europa.

Il diverso fa paura, non è NORMALE, può far cambiare le cose...e intanto i nostri jeans firmati li cuce un bambino indiano in una fabbrica di uno slum di Mumbai..e noi spesso non possiamo permetterci di comprare vestiario equo e solidale perché costa troppo..o peggio ancora neanche lo sappiamo chi li cuce i nostri vestiti...l'ignoranza genera povertà, la povertà genera ignoranza.
 E non è colpa solo dei nostri cari e odiati politici.
Sì perché la nostra classe politica ci riflette, non sempre ovviamente, ma nella maggior parte dei casi ci riflette. Da sempre. Prima, dagli anni '50 agli anni '90, con la Democrazia Cristiana perennemente al governo, specchio di un popolo bigotto, sottomesso e attaccato ai privilegi (materiali e dello spirito); poi, dai primi anni '90 ad oggi, con la figura imperante e carismatica di Silvio Berlusconi, portatore del “sogno italiano” di crescita e libertà, evocatore di valori come la ricchezza materiale, il lusso, il piacere e soprattutto il potere. 

P O T E R E !


Avere il potere ti darà la felicità. E' questo quello che pensa la maggior parte degli italiani, purtroppo. E non solo agli alti piani delle  grandi aziende o ai vertici della politica o della chiesa (un cliché che non muore comunque mai), ma anche nel piccolo, nella vita quotidiana, nei rapporti interpersonali. Il potere di un uomo su una donna, il potere di un uomo su un animale, il potere di avere l'ultima parola sfuggendo al confronto...Il potere.

Chiaramente la colpa non è solamente di Silvio Berlusconi e del suo “partito”, ma di un sistema mafioso nato con l'Italia stessa, di una cultura basata sulla legge del più forte, del più ricco, del più furbo.
Ecco che allora è importante ripartire da se stessi. Essere in pace con la propria anima e parlare, farsi sentire, vivere pensando che l'onestà di pensiero che porto ogni giorno nella mia vita va a comporre un quadro più grande: la mia nazione e il mio mondo.
A livello sociale non siamo più in grado di ricostruirci. Non a questo punto: è tardi. 
E allora credo nella consapevolezza, nell'informazione alternativa, nella crescita spirituale e intellettuale...credo nell'individuo ma non credo più nell'italiano. 

giovedì 6 dicembre 2012

L'assordante rumore del vuoto


Nel 2007 mi decisi ad iniziare questo blog, stupito e incuriosito da un argomento divenuto noto come "l'apocalisse Maya". Mi parve un buono spunto per affrontare alcuni argomenti sul nostro modo di essere, di agire e relazionarsi con il mondo reale e virtuale che abbiamo intorno. Tutti questi argomenti sottendevano più o meno esplicitamente una domanda; Se effettivamente fossimo alla fine del mondo, come potrebbero cambiare i nostri comportamenti e rapporti, come potremmo occupare il tempo, consapevoli che la fine di ogni cosa si sta inesorabilmente avvicinando? 

Non pensavo certo di influire su nessuno, mi piaceva l'esercizio un po' fine a se stesso, di cercare di guardare le cose da un punto di vista differente.

A distanza di questi anni, ovviamente, nessuno dei nostri micro e macro modelli è cambiato e queste congetture anzi si sono volta volta scontrate con un mondo in continua accelerazione, teso a produrre di più, consumare di più, drogato di beni al punto che le crisi economiche sembrano essere in relazione al nostro corpo sociale come l'astinenza sta a quello di un eroinomane. 
Insomma, pare proprio che non siamo intenzionati a fare passi indietro, convinti che siano "dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive". Certo, siamo in molti a pensarla diversamente: ma non siamo efficaci. Non lo siamo stati. Chi per inedia, chi per inabilità, chi per troppa passione.
Fatto sta che l'epoca, come un fiume in piena, ha esondato: è troppo ricca di input, di rumore, di interferenze, di connessioni, relazioni reali o virtuali, è eccessiva nei beni, nelle immagini, nelle opinioni, è strabordante d'arte, visioni, religioni dell'anima, del cibo, del corpo: è un epoca in cui tutti i limiti sembrano valicati, le idee sono iperframmentate in miliardi di rivoli, ognuno con un suo diritto ad essere, la peculiarità è esplosa in tutto il suo caotico splendore, ingovernabile e indeterminabile. Le teorie sono totalmente relative, così come le esistenze, la morale. 
Tutto è troppo. C'è troppo di tutto, e quindi non c'è niente. E questo niente produce l'assordante rumore di un vuoto. A cui è necessario contrapporre un assenza di rumore nel quale ritrovare ricchezza di significati. 

La necessità di silenzio, la rabdomantica ricerca di assenza di input, appare come un dovere. C'è un bisogno, neanche troppo sotterraneo di quiete, una spinta istintiva, quasi fisiologica verso l'annullamento di ogni stimolo, eccitazione, rumore.

E forse è questo, tesi e accelerati come siamo verso la fine del mondo, il futuro più auspicabile.

mercoledì 31 ottobre 2012

Lo spettacolo che non ci sarà mai

“Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti, uomini e donne siamo attori. Con le nostre uscite e le nostre entrate. Un uomo, nel corso della vita, interpreta molte parti" 
W.Shakespeare - As you like it

Lo stato dell'arte, come molte altre cose nel nostro paese, è sconfortante. Potrebbe sembrare un argomento da poco, considerazioni da farsi seduti su una poltrona di velluto mentre si sorseggia un bicchiere di cognac davanti al fuoco, in compagnia di qualche amico gentleman. Invece no, con un impeto di orgoglio sostengo che siano problemi di strada, quotidiani, che riguardano ogni singola persona che vive in questo paese. Certo, ognuno è la misura del suo punto di vista, si tende ad assolutizzare le proprie priorità ed emozioni, come se da esse dipendesse il mondo intero: eppure credo che quello in questione, sia un problema etico e morale fondamentale. 

In questo caso, e parliamo del Teatro, pare che il nostro tempo (nazionale) abbia perso totalmente la possibilità (e la capacità) di raccontarsi. Non è un impoverimento da poco, dato che la narrazione teatrale serve da specchio per il presente e per i posteri. 
Cosa è - o dovrebbe essere - il  teatro se non questo? 

In Italia, le stagioni teatrali di prosa si contorcono cercando pubblico attraverso la ripetizione di classici. Si mettono in scena Pirandello, Shakespeare, si osa (!) con Pinter. Scrittori contemporanei nostrani? Non pervenuti. Esistono? Certo. Ma non potendo ambire alla messa in scena se non sporadicamente e per elemosina di qualche scriteriato che abbia deciso di eseguire un loro copione (destinando lo spettacolo ad un sicuro flop), certamente non possono pensare di reputarlo un lavoro, di farne un mestiere. Se mai nascesse un Shakespeare odierno in Italia sarebbe a fare il lavapiatti, a vita. 

E perché mai questo problema dovrebbe essere importante, si obbietterà. In fondo il teatro è vestigia del passato, un obsoleto passatempo snob, costoso e patinato. E a raccontarci per come siamo ci pensano altri media: il cinema, internet, i libri. Bene.
Ora, senza voler essere pedanti, a queste obiezioni ci sarebbero da opporre alcune argomentazioni. 
Primo: tutti questi media non esistevano neanche quando il teatro già era maturo e codificato nelle sue forme. Ed ha resistito per 2500 anni. 
Secondo: il teatro assolve a una funzione diversa; non è cinema, non è televisione, non è internet, e non è - evidentemente - carta stampata. Il Teatro ha da sempre, fra le altre, la non demandabile funzione sociale (da Eschilo a Shakespeare, da Moliére a Pirandello, a Brecht) narrativa. Si va a vedere teatro per avere uno sguardo (non mitizzante, fantastico o esaltante) sul tempo presente, su ciò che siamo, sull'identità che abbiamo, come singoli e comunità.
Terza argomentazione: fuori dai confini patri, e non per fare il solito esterofilo, il teatro gode di grande vitalità, originalità. Il centro e sud America godono in questo campo di un periodo particolarmente florido, tant'è che Ronconi (per chi non lo sapesse, uno dei grandi vecchi registi del teatro nostrano) ha messo in scena un autore contemporaneo argentino (Rafael Spregelburd, il 2 e 3 marzo 2013 al Teatro di Pisa) ; per non far parola del nord America, dove il sistema teatro funziona e sopratutto produce da anni spettacoli inediti contemporanei, trovando risorse produttive e pubblico a goderne. E questo porta forse al vero nocciolo del problema. 

Discutendo in questi giorni con il mio amico e collega Simone sullo sconfortante stato dello spettacolo in Italia, abbiamo ipotizzato questa soluzione e ci è parsa sensata e rivoluzionaria - e ovviamente inattuabile. Dato che in verità il sistema teatro in Italia si basa molto, e certo in forma massiccia si è basato negli anni passati, sui contributi che lo stato destina al settore, e che l'iter seguito dai soldi pubblici, anche in questo caso, e le scelte artistiche seguite, sono imbarazzanti forme di clientelismo, propongo il seguente. In Italia tutti i teatri dovrebbero chiudere, i fondi destinati allo spettacolo dovrebbero essere eliminati, azzerati: il pubblico cancellato e riformato. Esempi che supportino la tesi ve ne sono, vorrei citarne alcuni.

Vogliamo parlare dei compensi dei direttori di orchestra, o del divario fra il loro compenso e quello di un orchestrale? Vogliamo dire che nel cento per cento dei casi un ente lirico è in rimessa? Che vengono bruciati soldi pubblici per foraggiare e mantenere - male - a galla un sistema fallimentare? Che l'allestimento di un'opera lirica costa in media mezzo milione di euro e ne guadagna un quinto quando va bene? Che - a fronte di tutto questo - oltre la metà (!) dei contributi statali vanno agli enti lirici, e non ne esiste uno (UNO) virtuoso? Che in sostanza, questo spreco di soldi (nostri, in quanto pubblici) si traduce spesso in un vero e proprio ladrocinio istituzionalizzato? In tempi in cui la rottamazione va di moda, non sarebbe il caso di fare un poco di pulizia nel settore?

E la lirica è solo il caso più eclatante di un intero sistema da azzerare, da seppellire in quanto stantio,  morto, senza vita. Lo ammetto, amo la lirica, credo sia un valore aggiunto della cultura Italiana e un passaporto importante da coltivare, preservare, innovare e sviluppare. Ma la lirica dovrebbe - come tutto il resto del teatro Italiano - fare i conti solo con il mercato, e quindi costruirsi un pubblico. Lo stato deve smettere di comportarsi da narcotrafficante, drogando il sistema e portandolo alla morte, con l'unico risultato di foraggiare i soliti, aggrappati alla torta anche fino alle ultime briciole, anche quando il dolce è ammuffito. 

E infine, il pubblico, questo alieno. Il pubblico italiano, storicamente e, direi, geneticamente, è abituato alle compagnie di giro. In breve lo spettacolo viene vicino casa mia, altrimenti non mi muovo. Credo che le società, per quanto dotate di mezzi e possibilità, che non facciano i conti con questo assunto e tentino di impiantare in Italia un modello Broadway (o Londra), in cui lo spettatore si muove per andare a vedere lo spettacolo, siano destinate, ancora per molti anni a venire, al fallimento. Ma questo pubblico è anche disabituato alla novità. Non la conosce, la guarda con sospetto. Vive la produzione inedita - in particolare in momenti di crisi, dove l'impoverimento è prima di tutto economico e poi etico e morale - come una noia. Ed anche in sala a vedere altri spettacoli, più blasonati, si stanca. I dati sono chiari: il pubblico è impoverito, disinteressato, annoiato. Con la risultante che se i teatri domani chiudessero davvero i battenti, non avremmo questa sommossa popolare. Certo, avremmo molti disoccupati. Molti pianti. Flagellatori professionisti in strada ad urlare alla morte della cultura. E, un minuto dopo, le forze interessate, che veramente credono alla cultura teatrale, come mestiere e come funzione, a cercare di rimettere in piedi dalle fondamenta l'edificio crollato, a tentare una rifondazione di senso dello spettacolo in Italia. 
Ed allora perché non destinare, da subito, i 200 milioni di euro del Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) ad altro?  

lunedì 15 ottobre 2012

Venti anni di plastica

All'inizio degli anni novanta terminavo la mia istruzione superiore e mi affacciavo, con la boriosità dei venti anni, a cambiare il mondo, di diritto. Una grande fiducia nella mia generazione accompagnava quel periodo: i padri, come sempre, avevano torto e fallito - in più le inchieste giudiziarie in corso lo stavano certificando -, noi avremmo fatto più cose, meglio. Furono gli anni di anni di tangentopoli, del cosiddetto crollo della prima repubblica, della scomparsa repentina degli uomini di punta della classe politica, che per quaranta anni avevano guidato, bel bene e nel male, l'Italia. 
Fu come se si fosse aperto uno spazio vitale nuovo. La tipica "uccisione dei padri" stava accadendo sotto ai nostri occhi, per implosione il castello stava crollando. La speranza di un sistema nuovo, basato sul merito, foriero di opportunità, in cui ognuno di noi novizi avrebbe potuto dimostrare il proprio valore, in un gioco aperto e ad armi pari con la società, illuminava  la prospettiva. Grandi aspettative nel futuro animavano, ne ero certo, non solo quelli come me, che si affacciavano a dare un'occhiata alla vita che sarebbe stata, ma anche i lavoratori di lungo corso, gli imprenditori, le associazioni, la società - quella stessa che aveva tirato le monetine ai propri politici, cacciandoli. 

La discesa in campo dell'uomo nuovo, Silvio Berlusconi, venne a catalizzare questa aspettativa. Certo, il discorso con cui si presentò alla nazione fu un capolavoro di retorica, capace di portare a catarsi un intero paese. Un monologo degno del miglior cinema. Guardarlo oggi fa una certa impressione. La frase più comune fra gli estimatori della prima ora era: "farà dell'Italia ciò che ha fatto con le sue imprese". Il che, con il senno di poi, è esattamente quello che è accaduto.

Sono passati venti anni, e la rivoluzione - prima di tutto estetica - che ha piallato un mondo azzurro, da televendita, sorridente dallo schermo quanto dolente nel privato, è il substrato di coltura nel quale hanno potuto attecchire, antitetici alle aspettative ed alle speranze, malaffare, corruzione, clientelismo in misura maggiore di quella che credevamo debellata con le inchieste del novantadue. In questi venti anni di plastica un sorriso ebete rispondeva beato ed ottimista, mentre la stessa possibilità di futuro per una intera generazione veniva barattata e scambiata con una pesante e criminale restaurazione, aumentata, dei canoni di malaffare pretangentopoli.

I venti anni in cui una intera generazione avrebbe dovuto e potuto accedere al mondo del lavoro, in maniera certo dura e competitiva, ma chiara e meritocratica, si sono trasformati in venti anni di deserto, in cui qualsiasi seme avrebbe avuto difficoltà a germogliare. Venti anni in cui alla mia generazione è stato consegnato lo scomodo ruolo di zecche (bamboccioni, tanguy, cocchidimamma, etc), portate a vivere sfruttando per lo più le rendite raggiunte dai genitori, nella concreta impossibilità di costruire famiglia, casa, futuro. 

La classe dirigente di questo paese, tutta, non è immune da responsabilità. Chi avrebbe dovuto guidare il rinnovamento come chi era all'opposizione: la loro dialettica avrebbe dovuto favorire lo sviluppo di un sistema più corretto ed ha finito sistematicamente per scambiare il bene comune con il particolare. C'è un'accusa pesante che pende sulle loro teste: la sottrazione fraudolenta di venti anni è un debito generazionale verso un popolo intero, e quella che è stata ed in gran parte ancora oggi è la nostra classe dirigente (politica e imprenditoriale, spesso gli uni a braccetto con gli altri) deve essere chiamata a risponderne. 

L'arroganza con cui ancora oggi gran parte di coloro che hanno partecipato, in posizioni chiave, alla storia recente Italiana, accolgono le critiche, lo sdegno del popolo, i tentativi di messa in discussione dei loro ruoli (che forse ritengono essere eterni, o ereditari) appare tanto più odiosa quanto è di lungo corso la loro esperienza ai vertici. Alla fine la domanda resta una e banalmente disarmante: dove erano in questi venti anni e cosa hanno fatto? 

giovedì 19 luglio 2012

Perchè sono vegetariana

Scritto da: Eva Guidotti

“La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui essa tratta gli animali” Mahatma Ghandi


Il motivo per cui oggi sono vegetariana è che non voglio che siano uccisi animali per sfamarmi. Non voglio cibarmi di sangue e credo fermamente nell'uguaglianza di tutti gli esseri viventi. E' stato un percorso lungo, una volontà sopita e troppo debole per contrastare un modello alimentare impostomi dalla nascita.
Detto questo chi mangia gli animali consuma le risorse della Terra quattro volte più di chi non lo fa.
La fine del mondo è inevitabile e alla fine doverosa, ma tutti abbiamo il diritto di abitare questo pianeta nelle migliori condizioni possibili, e il dovere di salvaguardalo insieme a tutti gli esseri che lo popolano.
Non mangiare carne non è  solamente un segno di rispetto per gli animali ma ora più che mai una scelta sociale.

Dati alla mano: un hamburger equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell'effetto serra. Quantità esorbitanti di cereali e soia usate per dar da mangiare al bestiame da macellare. Un essere vivente nato e vissuto per sfamarci e inconsapevolmente partecipe di uno spreco di risorse che potevano essere destinate a sfamare paesi sottosviluppati.
Più di 800 milioni di persone nel mondo hanno fame e 9 milioni ne hanno tanta da morirne. Il 70% di cereali, soia e semi prodotti ogni anno negli Usa serve a sfamare animali. Non uomini.
La deforestazione necessaria per la creazione di pascoli porta all'estinzione di specie animali e vegetali, e in ultimo alla desertificazione.

E la domanda di carne sta crescendo. Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali. Stiamo esportando il nostro modello alimentare, ancora una volta siamo colonialisti, ciechi volontariamente in nome del dominio e del denaro.
Ancora dati: secondo l'Ifpri (International Food Policy Research Institute) entro il 2020 la domanda di carne nei Paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei Paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali per nutrire queste tonnellate di carne. Fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate. Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse. Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne. La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l'industria dell'allevamento e della macellazione. Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo con la carne.


 "Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita del 20% ogni dieci anni", scrive Jeremy Rifkin, "si sta preparando una crisi alimentare planetaria".

Due frasi che mi hanno aiutato, insieme a quella di apertura dell'uomo che ammiro di più al mondo, a cercare un modo di alimentarmi consapevole e compassionevole: una di Albert Eistein (il celebre fisico), e una di Judith Malina (fondatrice del Living Theatre insieme a Julian Beck).


“Nulla sarà più benefico dell'evoluzione verso una dieta vegetariana sia per la salute umana che per la possibilità di sopravvivenza del pianeta” A. Eistein

“Finché ci sarà spargimento di sangue sulle tavole dei macellai, nel mondo ci sarà la guerra” J. Malina

venerdì 30 dicembre 2011

DVM 15 - La strada di Mattia

Nuovo Diario della Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. Invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
info@metro-polis.it. 
A patto che il Diario del Viaggiatore Maldestro rimanga, sempre, la fedele ricostruzione delle esperienze, di ciò che è stato visto e vissuto, sempre in prima persona, da chi scrive.


Diario del Viaggiatore Maldestro
Fuerteventura - Canarie - Novembre 2011
“Eva! Eva!.....”
“Mattia, stai correndo sulle pietre scalzo!!!!”
“Sì, perché?” - un italiano spagnoleggiante e una vocina deliziosa - “Te dove abiti, in città?”
“Sì”- dico io.
E lui risponde: “Ecco, io sono un tipo da pietra e te una di asfalto!”.
Non fa una piega. Mattia ha le infradito in mano e mi fa strada sul sentiero che porta al vulcano. Morro scodinzola accanto a noi.

Fuerteventura è un'isola delle Canarie, e sembra un paese alieno. Distese di niente con l'oceano intorno. Quando la mattina metti il naso fuori dalla porta capisci che ci sei e non vorresti mai andare via. Dopo aver visto l'abbondanza e la ricchezza del mondo indiano, trovarsi qui è la metafora perfetta di un capitolo che si dischiude.

“Guarda, un coniglio!” – mi fa Mattia tutto allegro.
Chiaramente non lo vedo, qui ogni animale si mimetizza in maniera acrobatica... mi sforzo... mi arrampico sul muretto che separa il sentiero dai campi... sì, sì, eccolo!!!!! Vedere i conigli liberi nel deserto. Grazie.
“E lo sai che ci sono i fiori qui in questo campo?”.
“ No, non lo so...” - rispondo.
Mattia prende una pietra e me la mette sotto gli occhi: ci sono piccolissimi fiorellini violacei e sono belli. Crescono sulle pietre. E poi me ne fa vedere di bianchi e di gialli... e comincio a notare i muschi, alcuni tipi di erba, piantine grasse.

Ti metti la felpa jolly che porti da 10 giorni e l'mp3 alle orecchie.

Whatever tomorrow brings, I'll be there
With open arms and open eyes yeah
Whatever tomorrow brings, I'll be there
I'll be there


E poi un ragazzino di nove anni bello come il sole ti svolta la giornata.
“Sai, io mi trovo bene con te e gli altri… ho preso molta confidenza!!!”.
Gli altri: Mirko, scanzonato e amabile surfista che abita a Fuerte da circa cinque anni e che ci ha aperto la sua casa come se fosse nostra. Mary, ex fidanzata di Mirko, e Tiziana, fotografa professionista con visino d’angelo. Appena siamo a casa Mattia e suo fratello Santiago si fiondano da noi e si gioca!
“Mattia, anche noi stiamo bene bene con voi…”
Penso a che uomo diventerà da grande… e spero che tanto di quello che è rimanga.

Morro mi scorta a casa. Lo abbraccio. Ora è anche il mio cane fedele.
Due ore dopo siamo alla Primera Playa. Distesa di sabbia bianca e scogliere massicce. Vento, vento e ancora vento. Surfisti e cani che giocano. Io e Mary ci  tuffiamo nell’oceano e dopo aver oltrepassato la soglia del congelamento mi diverto come una bambina tra le onde.
Lasciare quest’isola non sarà per niente facile.
 

venerdì 18 novembre 2011

DVM 14 - Passaggio a Goa

Nuovo Diario della Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. Invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
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Goa, India - Gennaio 2008

Un caffè nero di fronte all’Oceano Indiano. Anjuna Beach, il mitico rifugio dei freak dagli anni Sessanta e Settanta in poi, dove hanno suonato i Beatles e i Rolling Stones… beh, un bell’impegno!!! Credo di non aver mai visto una spiaggia tanto carica di energia alla prima occhiata, come se cielo, mare e terra si amalgamassero restando nell’immobilità della meditazione. E’ molto presto, e ci siamo solo noi seduti al caratteristico bar a strapiombo sul mare, sotto l’alba prepotente che presagisce il caldo del giorno. Che fare? Niente, per un’ora buona. Solo fluttuare nell'attesa. 

Il venditore di sassi 
Ecco un banchetto, allestito con cura e amore: cosa abbiamo? Una ventina di sassi grigi di varie dimensioni e forme, e in più alcune statuette filiformi dalla provenienza enigmatica. Che merce pregiata! Ma c’è qualcosa che aleggia nell’aria e che mi fa pensare. A dire il vero c’è anche quel vocio sommesso e deciso che ci ha accompagnati nel sentiero rosso ocra, polveroso e profumato: hashish,coca, trip. Cosa venderà mai questo ragazzone indiano che si accompagna ad altri simpatici e sorridenti indigeni? 

Ci siamo, la stanza è spoglia. Un tavolino di legno con sopra un quaderno pieno di numeri. Ragazzini asiatici e pusher di Goa. Dopo una breve e intensa trattativa abbiamo la nostra tola di fumo. Immediata, la prima canna in cameretta buoni buoni. Il primo assaggio. Buono… decisamente buono.  Mi domando cosa sia rimasto realmente di quegli anni di rivoluzione, in cui Goa era un baluardo dell’oriente (colonizzato dai Portoghesi, ma pur sempre in Oriente) conquistato dai figli dei fiori, dove le sostanze avevano un significato “altro”. Nel frattempo, dei giapponesi sfrecciano su scooter malandati: il loro cervello è completamente in banana… direi decisamente tanto. Il giapponese si fa prendere la mano, lo vedo. Lo vediamo tutti. C’è un po’ di vuoto e di stupore nei suoi occhi. 

E’ come mettere in uno shaker passato e presente, poi scuoterlo bene, e finalmente mettere il tutto nel bicchiere. Adesso: che colore ha questa bevanda? Vira sicuramente dal rosso acceso all’arancio. Nessun dubbio. 

Festa on the beach. Una signora indiana con una sari rosa acceso, sulla sessantina, vende piccole statuine di Ganesha augurando ai partecipanti: For a good party! La luna è piena, il vento meraviglioso, i sensi chiaramente alterati e la visione è  chiara. Ci sono anche bambini che ballano con coroncine di fiori …tracce di quel qualcosa vengono raccolte…  forse qui sento quel passato… sì, lo sento. Eccolo. 

Mandrem è la natura essenziale che si spalanca improvvisamente lasciando alle spalle un concentrato di cose. Forse troppe, per me. Il bianco della sabbia fine al posto del rosso intenso e degli scogli bruni. Impossibile non correre. Gli uccelletti saltellanti sono una miriade.  “Come to look my shop!”, “Come to look my shop!”.  Eccole. Ragazzine bellissime che snocciolano le stesse frasi agli occidentali tutto il giorno. Per vendere un vestito, un bracciale. Fra loro Gita, che ha quattro cavigliere, una ventina di bracciali tintinnanti, trecce nerissime e un sari che porta come jeans e maglietta. Ha 17 anni ed è una venditrice nata. Sai che c'è? Un feni, il tramonto di Anjuna e un po' di tola.

venerdì 14 ottobre 2011

DVM13 - Bombay onirica


Ospito oggi per la prima volta una Viaggiatrice Maldestra, attratta quanto me dalle esperienze di viaggio, al di là della pura descrizione da "trip advisor", cosa che su questo blog, decisamente, non troverete mai. La ringrazio, e invito chiunque abbia voglia di condividere le sue esperienze di "Viaggiatore maldestro" a inviare il suo materiale all'indirizzo mail 
info@metro-polis.it. 
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Diario del Viaggiatore Maldestro
Bombay, India - Gennaio 2008

Le tre del mattino. Uscendo dall'aeroporto m'invade l'odore di Mumbai. 
Il primo passaggio è davanti alla baraccopoli di una città che conta 16 milioni di abitanti. Sul taxi nero e giallo siamo in quattro: gli occhi incollati ai finestrini corrono veloci stando dietro ai suoni di clacson, e nessuno parla. Non c'è niente da dire: commenti sul volo di nove ore appena finito, se qualcuno ha fame o sete, cosa si fa domani....no.
Il nostro autista ci presenta la sua statuina di Ganesha (la divinità dalla testa di elefante e il corpo di uomo, che sarebbe poi diventata la mia “preferita” in assoluto), sapientemente incollata sul cruscotto, davanti al volante, sulla cui proboscide declina sinuosa una ghirlanda di fiori arancio vivo. Mi sembra che questo viaggio non finisca. I tetti di lamiera dello slum e poi i negozi dalle insegne in hindi e ancora il mare e un infinito malecón mille volte più ammaliante.
Siamo arrivati di fronte al nostro albergo, immerso in una scacchiera scomposta di strade e con davanti alti alberi gracchianti. I corvi sono decisamente poco discreti, il loro suono sovrasta tutto il resto, e io sono già in ipnosi. Scendendo dal taxi guardo dentro la porta a vetri opaca dell'albergo e vedo più persone nell' ingresso, tutte distese a dormire: alcuni indiani con la divisa da lavoro, una specie di livrea spartana, e uno di questi con un grosso turbante bianco (un sikh, avrei capito poi).
Tutti si svegliano e portano le nostre valigie in camera, gentili e pronti a ricevere le nostre prime rupie da spendere. La porta si chiude dietro di me e il mio amore, e lo sguardo va verso la finestra che in un attimo è spalancata. In strada ci sono vari gruppetti di uomini seduti sui marciapiedi che discutono, e ridono, e poi locali luminosi, carri che passano trainati da cavalli... polvere che sale.. sento i primi odori dell'India con attenzione. Quasi tre sigarette in mezz'ora e siamo in strada. 
Io e il Matteo. 
I nostri compagni di viaggio sono apparentemente spossati e forse anche un po' intimoriti, e li capisco. Ma DEVO vedere, ancora non so che il senso della vista in India è di un'intensità a tratti tenue rispetto a tutti gli altri sensi. Percorriamo la strada asfaltata che all'improvviso diventa una piazza sterrata e l'odore si fa più consapevole. Incenso, spezie, escrementi, cibi arrostiti e fritti, profumo di fiori. Una moltitudine di umanità fragile e potente che vive in un luogo che per me è altro, eppure già  parte essenziale di tutto il mio mondo. Le mucche magroline scampanellano lente e placide ed io gli accarezzo il muso: gli occhi grandi, lo sguardo buono. Vorrei compare queste foglie che masticano tutti... betel... sostanza onirica?!! 
Troppo indagare anche il gusto. 
Non so quanto è durato questo nostro primo passaggio stentato e stregato, ma ricordo l'intensità devastante della mia prima notte indiana.

domenica 9 ottobre 2011

DVM12 - Epernay, Kebab & Champagne


Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.

Diario del Viaggiatore Maldestro
Epernay, Francia - Settembre 2011

Kebab e champagne è un ossimoro, forse una bestemmia, ma non ci penso, a Epernay, centro per eccellenza della produzione delle famose bollicine nonchè sede, fra l'altro, dei ventotto chilometri di cantine del Moet&Chandon. Azzanno il panino arabo mentre mi guardo intorno. Tutto, in questo posto, gira ovviamente intorno allo champagne, che qui non è solo vino, ma storia, turismo, paesaggio, lingua.

Dopo i primi di giri di scrocco assoluto (al locale ufficio del turismo ci sono, in offerta, almeno quattro degustazioni), la bussola gira sulle cantine Mercier, la cui manginficenza è certificata dal grande manifesto sulla strada del baffuto e ottocentesco Monsieur Mercier, il cui volto rubicondo (anche se la foto è in bianco e nero è ovvio che abbia le guancie rossicce) sorride dietro lunghi baffi bianchi.
Piccola parentesi: se non fosse giá chiaro, non capisco assolutamente niente di champagne. Lo apprezzo, naturalmente, ma non lo decifro, ecco. Non ne so i vitigni, la produzione, i metodi, la storia - e decisamente non sono qui per impararla. Sono l'impersonificazione di un beone ignorante il cui unico scopo è bere. Per cui, quando scendo dalla macchina nel cortile della Mercier a gola secca, e mi appropinquo all'entrata con Eva, la mia compagna di viaggio, sono deluso e comincio a dubitare di essere a Disneyland. Pullmann e guide turistiche mettono in fila improbabili visitatori - che ci fanno dei bambini di dieci anni? (forse ad imparare storia, la mia ottica da ubriacone non me lo suggerisce, sul momento) La visita alle cantine Disneyland, costa comunque una decina d'euro, senza degustazione, che si paga a parte. Senza neanche bere?

Giro sdegnato i tacchi e prendo il toro per le corna, cercando altro.
Pochi metri piú avanti, passando fra una serie di fabbricati piú o meno uguali, parcheggio in una casa, il cancello è aperto ed entriamo in un piccolo atrio in legno, con un bancone, bottiglie, un paio di tavoli e dieci sedie alte. Un pub chic. Una ragazza informa, c'è la possibilitá di degustare, a cifra modica, tre bicchieri a scelta dal catalogo scegliendo fra un decina di qualitá. Vada per la degustazione.
Piccola nozione acquisita: fu Dom Perignon (un monaco benedettino) a inventare nel settecento il metodo tipico. Si narra che abbia esclamato ai confratelli "sto bevendo le stelle!". Ed effettivamente, con l'entrata in circolo del settimo bicchierino di champagne in quindici minuti, il tempo rallenta, il corpo si rilassa. Insolitamente, le gambe reggono benone: miracoli del vinello. Tronfio della mia mancanza di cultura delle bollicine, ho comunque apprezzato alcune degustazioni, le differenze fra le qualitá sono palesi.
Eppure non sono ancora appagato. Mi sento ancora nel lusso, bonton, un poco sostenuto della bevuta raffinata, intellettuale. Vorrei una cantina piccola, con poca produzione, con dentro una piccola famiglia francese un poco naïf, con un numero di visitatori piccolo e nessun bambino alcolizzato. Per questo riprendiamo il mezzo e ci avventuriamo fuori da Epernay, in un viaggio nella campagna, alla ricerca di cantine meno rinomate, più genuinamente semplici.

Ed è così, senza troppa difficoltà, che giungiamo ad Ambonnay, e sbattiamo in un cortile un poco dismesso. Suonare il campanello in questa quiete sembra una bestemmia, ma è quello che facciamo per capire dove poter trovare una cantina. Che ovviamente è esattamente il luogo in cui ci troviamo. Una piccola e corpulenta donnina sui settanta ci fa accomodare in casa, in una stanzina con letto e tavolino. Stappa una bottiglia. Ne producono duemila esemplari l'anno. Lo champagne mi sembra buonissimo. Ho trovato quello che cercavo. Ed è allora che capisco.

Il piacere del gusto, gira intorno a mille altri sensi, probabilmente anche alle aspettative. Mi accorgo di cosa voglia dire - quando si parla di bere, mangiare - essere nel luogo di produzione; di come insomma tutta l'esperienza si faccia piú ricca, forse dispersiva, meno concentrata sul piacere unico del palato, ma certamente piú sfaccettata. I sensi coinvolti sono perlomeno più allertati, come se si vivesse una "realtà aumentata", assorbita per osmosi dall'ambiente intorno.
E tutto questo rende il gioco valido di essere vissuto.

domenica 28 agosto 2011

Attivi consumatori passivi

In Italia negli ultimi anni il consumo di psicofarmaci è aumentato del 75%. Come osserva il dottor Giuseppe Nicolò, responsabile del Centro Salute Mentale (CSM) Boccea di Roma, nonché presidente europeo della Società di Ricerca in Psicoterapia, “L'aumento è legato all'emergenza di nuove patologie, derivanti dallo stress e dalle condizioni di vita attuale, e soprattutto a una maggiore sensibilità nei confronti della malattia mentale, per cui è più facile che le persone chiedano aiuto e si rivolgano ad uno specialista”.
Fondamentalmente due cause, quindi. Da un lato siamo più stressati, dall'altro siamo consapevoli di esserlo e quindi più “sensibili”. Paradossalmente, non si prendono ansiolitici perché consapevoli di essere stressati, bensì il contrario: sappiamo di essere stressati perché prendiamo ansiolitici.

Credo che - come per secoli siamo stati quello che, alternativamente, mangiavamo o facevamo - oggi siamo ciò che vediamo. Lo specchio naturale delle nostre deviazioni, le immagini, sono un riflesso di noi non tanto per ciò che mostrano, quanto per ciò che comunicano. Più della violenza in sé è la cultura della violenza che crea terrore. Ovvero: siamo tanto più terrorizzati, ad esempio, dall’idea di criminalità derivata dal subirne quotidianamente le immagini, di quanto non effettivamente se ne siano subite le conseguenze. La nostra è una paura indotta. Come indotto mi appare lo stress ed anche il nostro esserne consapevoli. Siamo in definitiva in un regime di totale passività, guidati da cose che non conosciamo (perché spesso ne siamo informati, anziché farne diretta esperienza). Questa nostra passività si estende fino ad abbracciare la vita con comportamenti totalizzanti, vestendo una maschera benigna: quella dell'attivismo.
Insomma, il cosiddetto essere attivi, cioè avere e perseguire obbiettivi concreti, scalare il successo, garantirsi beni materiali, rappresenta per il senso comune il viatico verso la felicità. Che è tutto sommato l'esatto contrario, laddove bisogni indotti e l'insoddisfazione conseguente al non raggiungimento di tutti i beni materiali provocano infelicità. Del resto non è possibile, il bene materiale si sposta sempre più lontano ed offre un piacere circoscritto nel tempo e nello spazio: godo della cosa che ho ottenuto nel momento in cui la ho ottenuta e per poco tempo: lontano, nel tempo e nello spazio, ne godo certo molto poco. Questo essere guidati, essere schiavi di bisogni indotti ci rende passivi, in balia di altro da noi stessi, mentre, con un geniale ribaltamento di prospettiva, questo genere di comportamento passa sotto l'egida della produttività, dell'attivismo, del controllo totale della propria vita, della positività delle progressive sorti dell'umana gente.
Chi si trovasse a svolgere, al contrario, una attività contemplativa nei confronti del mondo e quindi ad espletare una azione decisamente attiva sul dato esperienziale, con un doppio carpiato del senso viene dipinto come passivo, non produttivo, negativo per la società.
La passività (quella reale), soprattutto del pensiero, ancora una volta, conviene.
A chi, non è dato capirlo esattamente. Sicuramente ai produttori di psicofarmaci, nonostante (cito ancora il Dott.Nicolò) “Gli ansiolitici siano dei farmaci la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Sono farmaci che danno solo un momentaneo benessere. Sono efficaci, quindi, solo nel breve periodo. Purtroppo, sono tra i farmaci più utilizzati, anche se determinano nel paziente dipendenza, l'astinenza quando il farmaco non viene assunto”. Droghe. Potenti e legali. Che creano dipendenza.

La passività (dipendenza) si traduce nelle immagini che, come società, diamo di noi. Siamo ciò che vediamo, ancora una volta, non tanto per ciò che le immagini mostrano di noi, quanto per ciò che suggeriscono. L'immagine tende a mostrare un solo significato, quello apparente, immediato. La pluralità di significati soggiacenti al primo arriva spesso sotto pelle. Come accade nella comunicazione pubblicitaria. Una ragazza seminuda che guida una macchina sportiva è solo una ragazza seminuda o al tempo stesso rappresenta un forte richiamo sessuale istintivo per la categoria target (maschio e benestante) che generalmente acquista quel tipo di mezzo. Questo genere di bisogno indotto rende il target piu’ felice, nel tempo e nello spazio?

E' il gioco delle matrjoske, dove le carte nascoste truccano la partita e tutto diviene il contrario di tutto, gli attivi assertivi (schiavi) da imitare, i passivi contemplativi (liberi) da rifuggire. La molteplicità, il moltiplicarsi dei significati stratificati che giacciono dormienti all'interno delle immagini, rappresentano la loro forza comunicativa ed allo stesso tempo un'arma pericolosa. Proprio per questo fattore costitutivo, essenziale, passivo ed attivo allo stesso tempo, siamo (come società) ciò che vediamo, l’immagine che diamo di noi.
Che accadrebbe se, in questo finale di partita, le immagini cessassero di rappresentarci e acquisissimo coscienza del benessere reale e delle necessità non indotte? L’economia globale ne risentirebbe? Cesseremmo il nostro ruolo attivo di consumatori passivi?