domenica 27 marzo 2011

Troppo Tutto

Tana libera tutti. E’ il momento delle mani pulite. Non porta bene. E’ scoccata l’ora del si salvi chi può. Tutti al riparo, a cominciare dai partiti, quelli nati e quelli nascenti, che vogliono le mani libere; i politici con una mano lavano l’altra, mentre i cervelli a telecomando stanno seduti in poltrona con le mani nel naso e fra i coglioni, assorbendo manate di rumore. Che si spande, esce dal catodico ed entra nel colloquio, a cena, a pranzo, nelle ore più impensate. Straordinariamente semplice è dissertare per ore di un omicidio, meglio se di una minorenne, emettendo, ripetendo, amplificando, concetti, idee, immagini. Si può vivere di questo. Riducendo il cervello a una spugna che assorbe niente e rende niente. Un niente che però ha un volume, una massa, che occupa spazi. E così, sommersi some siamo, nuotanti nelle parole, natanti del nulla, galleggiamo verso una deriva. Una qualunque, ‘che l’approdo è incerto, l’obiettivo da sempre è inutile essendo il viaggio ciò che conta, quindi, come recita l’adagio, “Finché la barca và, lasciamola andare”. Ce lo siamo raccontati a lungo. Ahimè anche il viaggio pare ora essere una esperienza poco edificante, costellato com’è di troppo tutto.
Talmente alto è il volume e la massa della conversazione che distinguere qualcosa appare, anche se si volesse compiere lo sforzo sovrumano, impresa improba. Ergo, ci si astiene. Stufi, stanchi, avviliti dal troppo, si buttano i remi in barca, appunto, finché và. Che prima o poi i tempi miglioreranno, il troppo tutto diminuirà, riapparirà un orizzonte definito, una prospettiva, qualcosa a dettare la rotta.
Eppure, a ben guardarsi dietro, il mare si è fatto torbido da parecchio tempo, e a voler gettare uno sguardo oltre, appaiono solo nubi, tempeste. E l’inerzia la fa da padrona, la velocità decresce, lo stallo è prossimo.

Ed io, pur se stordito ed evidentemente pessimista, sono felice. Devo dirlo, sento che rimbimbisco. Sto ringiovanendo di colpo, ovunque guardi il tempo viaggia a ritroso. Era dal novantaquattro che dal vocabolario italiano era scomparsa la parola Partito, ed io, naufragato come ero fra fiori, pianticelle, querce, ulivi, forzismi, unioni, leghe e alleanze, ne avevo persino smarrito il senso. Anche lì, perso nella galassia informe di nomuncoli destabilizzanti. Finalmente, nel duemilasette in meno di due settimane la bussola è tornata a puntare chiaramente la direzione, sono ringiovanito di almeno quindici anni e la parola Partito è tornata in terra a fare il suo sacrosanto. Nati il PD, il PDL, vera promessa dello scintillante bipolarismo all’italiana. Oggi, a tre anni di distanza, anche quel mio rimbimbire è naufragato nel TroppoTutto che interessatamente regna il nostro confuso tempo.

Però, però, guardando bene c’è di più. La lancetta và a ritroso e io ringiovanisco. Rimbimbisco ed anche più. Mi ritrovo feto. Forse sogno, sono larva. Sperma. Pensiero. Infine ipotesi. Balzo indietro di secoli e mi risveglio in un mondo con la messa in latino, occidente contro oriente, la guerre crociate, il rinchiudersi nel fondamentalismo. Gli immigrati come un pericolo da sventolare sotto il naso (per inciso, gli oltre 4 milioni di italiani immigrati a Ellis Island erano affamati e probabilmente delinquenti, e in tutti i casi hanno contribuito alla costruzione degli Stati Uniti); prima gli albanesi, poi i marocchini, i romeni e oggi i tunisini, domani chissà: bisogna radicalizzare per meglio imperare, insegnano – appunto – i romani. Ecco, sogno il medioevo.
Eppure.
Guardandosi intorno, il progresso c’è, pulsante, onnipresente. Ho capito, è un medioevo tecnologico, nel quale ci apprestiamo a fare il gran salto, per divenire (noi) il terzo mondo. Ma non sono catapultato in Orwell, non è quello, il libro. Allora realizzo, non sto sognando. Sono sveglio, nell’incubo sognato da Orwell. Ed occorre che, mentre rimbimbisco, mi faccia due domande sulla cara e vecchia Apocalisse, sul fatto che bisogna anche, all’occorrenza e nella concreta ipotesi di tirare le cuoia mentalmente, cercare di dire qualcosa; nel Troppo Tutto non ritrarre i remi cedendo all’inerzia, ma, almeno, prendere un rischio, fare il granello del deserto controvento, fare lo sforzo. Ecco, voglio rimbimbire rompicoglioni. Come ero, infatti, da bimbo. Voglio urlare. Credere alle rivoluzioni, farle ovunque, alzare la testa.

Ps: Il nostro Presidente, da New York, vuol essere rassicurante e afferma: "l'Italia ce la farà".
Speriamo ce la facciano anche gli italiani.

domenica 20 marzo 2011

Organizzazioni Nucleari Unite



Il recente dibattito esploso in Italia (e non solo) suscitato dalla catastrofe giapponese, con la conseguente parziale fusione dell'impianto di Fukushima ha denudato da un lato le posizioni del governo (e della lobby finanziaria che - fra le altre cose - aveva cercato di manipolare l'opinione pubblica con una campagna pubblicitaria apparentemente bipartisan) dall'altro ha evidenziato una visione a "corto raggio" del movimento d'opinione "ambientalista" (che dopo l'11 marzo ha trovato un numero consistente di sostenitori). No al nucleare, si proclama quindi, bloccando - per ora, e forse anche a mezzo referendum - la costruzione di nuove centrali.

C'é una stima della Global Nuclear Association, che a fronte delle attuali 439 centrali nucleari dislocate un pó ovunque nel mondo, nel prossimo quindicennio prevede la realizzazione di almeno 500 altri impianti.
Il perché é presto detto: colossi dell'economia globale come Cina (oggi 11 centrali, nel prossimo decennio almeno dieci l'anno in costruzione) e India (20 reattori nucleari, che soddisfano il 3% di domanda energetica interna, altre centrali in costruzione - una vicino a Goa - per raggiungere nel 2020 almeno il 25% di domanda interna) per citare solo i due "mostri" asiatici, hanno chiaramente avvertito che quanto accaduto in Giappone non puó e non deve cambiare i loro piani.
Negli Stati Uniti, lo sviluppo di una politica nucleare aveva subito un drastico arresto nel 79, a seguito della parziale fusione di un impianto a Three Mile Island, e l'amministrazione green di Obama si stava preparando a ripartire con il programma di investimenti (per ora congelato, ma di prossima attuazione).
Da noi la Germania ha fermato le sette centrali costruite prima del 1980, la Svizzera ha bloccato la costruzione di nuove centrali, la Russia e la Repubblica Ceca hanno fatto sapere che non fermeranno i loro programmi di sviluppo. I paesi del Golfo persico, abituali produttori della nostra principale forma energetica (attuale) si stanno attrezzando in vario modo per seguire la strada dell'atomo. Ovviamente, tutti i rappresentanti dei vari governi si sono premurati di avvertire che i livelli di sicurezza saranno garantiti anche a fronti di eccezionali catastrofi.

In sostanza: l'aver probabilmente bloccato la costruzione in Italia di centrali nucleari, non esclude il fatto che ai nostri confini (francia, svizzera, slovenia, germania, spagna - solo per citarne alcuni), a volte a pochi chilometri dai nostri confini, comunque ci siano reattori attivi. Per questo la politica del Nimb (not in my backyard) appare ridicola, sia a causa di coloro che non accettano centrali nucleari sul proprio territorio, sia di coloro che accettano le centrali, ma non nella propria regione (è il caso, tutto italiano, di diversi governatori del Pdl).

Come non esclude che a livello globale, economie rampanti si stanno affacciando al mondo delle "magnifiche e progressive sorti dell'umane genti" da cui sono state escluse per secoli, e non credo abbiano voglia di tornare indietro o sentir parlare di "decrescita felice". Queste stesse economie vivono esplosioni demografiche (e quindi di fabbisogno energetico) difficilmente arginabili con eolico o solare. E l'indipendenza energetica che un pó tutti stanno cercando, serve per continuare ad essere competitivi.

La domanda veramente attuale quindi é se ci sia un modello di sviluppo, sia economico, che energetico e sociale, morale, che possa cambiare lo stato attuale, alla fine dei nostri tempi, rendendo la parola "competitivo" obsoleta. Se la risposta fosse negativa, ci sono poche alternative al rischio nucleare su scala globale, raddoppiato rispetto a quello che stiamo vivendo oggi.


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Location:Las Terrenas,Repubblica Dominicana

giovedì 17 marzo 2011

Apologia dell'ozio

“L’abitudine è una grande sordina”. Qundo tempo fa lessi questa frase in Beckett (Aspettando Godot) mi colpì immediatamente per la sua forza di sintesi di un dato fondamentale della condizione umana. In tutte le sue multiformi espressioni, l’uomo è, invariabilmente in possesso di una capacità di adattamento ad ogni situazione, anche la più estrema e disagiata; una grande sordina, appunto, che con il tempo e con il reiterarsi di una data esperienza livella tutte le asperità, gli eccessi maligni come quelli benefici per portarli sotto la soglia della norma, rendendoli accettabili.

Questa sorta di oppiaceo naturale, l’abitudine, l'adattabilità, è allo stesso tempo il principale difetto e pregio della specie umana.

L’atmosfera di generale disincanto che vive negli occhi, nei pensieri e nella parole della gente, frutto del gattopardesco “niente cambierà mai”, la desolante rassegnazione con la quale fenomeni di mala politica, mala gestione, disonestà sociale, vengono subiti, sono frutto dell’abitudine. L'abitudine al peggio.

Il peggio è normale, lo si è “sordinizzato” fino al renderlo accettabile. Lo si subisce come un ineluttabile caso della vita. L’assioma del tengo lavoro, tengo famiglia, tengo problemi, supera ed azzera qualsiasi singola volontà di cambiamento, giustificando lo status quo. Il tempo, ancora questo tiranno, è già occupato in onore alla produttività, allo stipendio, al miraggio del posto fisso, alle bocche da sfamare, ed alle altre mille e una motivazioni. Ma niente di questo sembra “rendere”, in termini dell’investimento energetico che vi apponiamo. La depressione dilaga, perlomeno nelle aree ad alto rendimento: sembra che il frutto (uomo) sia stato spremuto fino alle ultime gocce, che abbia poco da dare.

Ecco allora dove potrebbe portare la rivoluzione prospettata; lavorare meno vuol dire, con una tautologia, oziare di più. Ovviamente una bestemmia, dove la religione del lavoro ha i suoi proseliti.

Dato che certamente, alla fine dei tempi come siamo, questo genere di religione non ci salverà, ripropongo il mio gioco che costa poco. Se è vero che il sistema produttivo, con la sua scala di valori (efficienza, massimizzazione, produttività in una variabile di tempo sempre più ristretta: in una parola negotium – con uomini relegati al binomio produttori e/o consumatori - all'opposto dell'otium) ha fallito miseramente nella sua promessa di un mondo migliore, abitato da uomini felici, allora, per dirla con Robert Louis Stevenson "Dobbiamo rivalutare il significato di ozio dandogli la connotazione positiva di ricerca del piacere all'interno del difficile mestiere di vivere" ed "E' meglio trovare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da 5 sterline" (Robert Louis Stevenson: Elogio dell'ozio, 1877).

Oziare è pensiero, oziare porta consapevolezza, l’ozio porta ad una gestione del tempo diversa, l’ozio è a impatto ambientale zero, l’ozio non è “il padre di tutti i vizi”, l’ozio non è solo equivalente di (dolce) far niente, l’ozio è – primariamente - in un’attività creativa, e certo, l’ozio è disprezzato da chiunque ha bisogno di forme più o meno accreditate ed accettate di schiavismo, in modo da perpetrare ed anzi aumentare lo stato delle cose. Eppure la logica della produttività, dello sfruttamento incondizionato delle risorse, naturali ed umane, mostra evidenti i segni di uno sfaldamento, le crepe rovinose di un sistema che ha ottime probabilità di portarci tutti in fondo alla famosa bocca del vulcano. E’ difficile contraddire questo assunto.

Ed allora, ancora: perché non siamo in grado di sottrarci alla logica in questione, svolgendo questa “dolce rivoluzione”?

sabato 12 marzo 2011

Requiem del belpaese




Anche se per molti versi puó apparire facile come sparare sulla croce rossa, in questi giorni cercavo di analizzare con alcuni amici le motivazioni, quali che fossero, del declino economico, sociale, culturale della mia patria e del conseguente nostro cercare altri lidi. Ne è venuto fuori uno spaccato desolante.
1) L'età media degli italiani (http://www.vita.it/news/view/104230) è destinata a crescere. La quantità di anziani, con scarse nascite, fa del nostro il paese piú vecchio d'europa, con la classe dirigente piú vecchia. La pervicace ostinazione con cui questi "grandi vecchi" fatichino a mollare i ruoli che si sono accaparrati, rende, di fatto, la stagnazione sociale irreversibile.
2) La depressione (http://www.osservatoriopsicologia.it/2010/11/27/italia-in-crisi-boom-di-psicofarmaci-e-il-medico-diventa-psicologo). Non si tratta solo di una depressione generalizzata, e ne é termometro il generale aumento del consumo degli psicofarmaci, quanto di un sentire profondo. C'è la percezione netta che manchi, al paese, la prospettiva. Si vivacchia, si tira 'nnanz, ma non esiste un progetto globale, una idea del paese. Non esiste a livello politico, e neanche a livello dei singoli. Siamo un paese a corto, cortissimo respiro.
3) Parenti, amici, tangenti, politica. Il modo di procedere nel fare affari, nel cercare lavoro, nella quotidianità, privilegia la rete delle relazioni a scapito della qualità e del merito. In sostanza, conoscere persone è infinitamente piú importante del saper fare, e non necessariamente le due cose sono in relazione. I politici appaiono come un vero e proprio cancro per il paese, essendosi convertiti (negli ultimi anni in modo sempre piú palese, direi) nel contatto obbligatorio per molte azioni: piú faccendieri che servitori dello stato.
4) la crisi, i paesi emergenti. L'europa e con essa l'Italia vive senz'altro una crisi che principalmente appare di idee, di identità e di conseguenza economica. Un mondo in declino monetario, fisico e mentale, che dovrebbe fronteggiare la concorrenza di paesi giovani, motivati in ascesa monetaria, da cui spesso provengono grandi idee per il futuro.

Considerato questo, ci sono ancora buoni motivi per vivere in Italia? La qualità della vita, le relazioni, il cibo, la natura, la storia, la cultura? Ci sono motivazioni ulteriori?

Location:Madrid, Spain

mercoledì 9 marzo 2011

L'Apokarev

Quattro anni fa inziai, insieme a Ciumeo (www.ciumeo.it), a pubblicare L’Apokarev, ovvero una serie di articoli basati su un paradosso.

Ci sono alcuni di noi che vivono nella convinzione che il mondo (o la vita umana su di esso) sia destinato a terminare o perlomeno a subire drastici cambiamenti a breve termine ad opera, guarda un po’, della dissennatezza stessa del genere umano. Si tratterebbe di un suicidio di massa. Minacciata nella sua stessa esistenza dai vari; inquinamento, effetto serra, riscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai e dei poli, sfruttamento indiscriminato delle risorse, e, perché no, guerre mondiali, ordigni atomici, rivolte globali e dissesti economici, la specie uomo inquieta si affida alla ragione. Interrogati in proposito, i rappresentanti della razionalità, gli scienziati, hanno iniziato a fissare la data di scadenza del punto di non ritorno sempre piu’ vicina a noi, circa intorno al 2050, anno in cui pare termineranno le ultime scorte di petrolio (e guerre per accaparrarsi l’acqua - il petrolio del futuro - sono possibili), i poli avranno terminato di sciogliersi, i mari avranno innalzato il loro livello, con la diretta conseguenza che intere parti di costa saranno scomparsi (Venezia, San Francisco, Sidney fra le altre) ed il clima, gia’ fuori di brocca, avrà definitivamente perso la propria mera prevedibilità.

In altre parole l’apocalisse.

Era l’argomento del momento, quattro anni fa, lo è tutt'ora. Politici di grido (Al tempo il dimissionario premier britannico recitava: CLIMA: BLAIR, SE NON FACCIAMO NULLA SARA' IL DISASTRO) e opinion makers lo rendono quasi piu’ interessante di tutti i gossip a cui siamo assuefatti. Questo, piu’ o meno, stava accadendo a livello planetario. Con la ostinata sordità dell’amministrazione Americana. Poi è spuntato Barack Obama a dare nuova spinta al movimento green.

In questo fosco scenario di inizio millennio, un gruppo sempre più nutrito di persone ha deciso di documentarsi e di aggrapparsi alle tesi che situerebbero la fine del mondo un poco piu’ prossima, ovvero nel 2012, come tutti sanno. Gli argomenti che adducono sono molti, ed hanno le loro basi, se si vuole nobilitarle di una qualche qualifica, scientifiche, mistiche ed escatologiche.


Bene, quello che di tutto questo mi pareva interessante non era tanto la veridicità o meno delle varie tesi, quanto tutto cio’ che alla fine comportano queste tesi. In breve, se e’ vero che stiamo danzando sul famoso orlo del vulcano, che ha gia’ iniziato ad eruttare e quindi l’apocalisse e’ dietro l’angolo, perché non riconsiderare il nostro modo di vita, situati come siamo al capolinea o perlomeno alla fine di un ciclo?

Quindi la domanda diventa la seguente: se per un attimo soltanto dessimo retta ai catastrofisti, se veramente la fine CERTA del mondo fosse nel dicembre del 2012, cambierebbero le nostre vite, in questo scarso tempo residuo? Cambierebbe non solo ció che facciamo quotidianamente, ma cambierebbe il modo stesso in cui guardiamo a noi stessi, al nostro modo di vivere?



Location:Madrid