“L’abitudine è una grande sordina”. Qundo tempo fa lessi questa frase in Beckett (Aspettando Godot) mi colpì immediatamente per la sua forza di sintesi di un dato fondamentale della condizione umana. In tutte le sue multiformi espressioni, l’uomo è, invariabilmente in possesso di una capacità di adattamento ad ogni situazione, anche la più estrema e disagiata; una grande sordina, appunto, che con il tempo e con il reiterarsi di una data esperienza livella tutte le asperità, gli eccessi maligni come quelli benefici per portarli sotto la soglia della norma, rendendoli accettabili.
Questa sorta di oppiaceo naturale, l’abitudine, l'adattabilità, è allo stesso tempo il principale difetto e pregio della specie umana.
L’atmosfera di generale disincanto che vive negli occhi, nei pensieri e nella parole della gente, frutto del gattopardesco “niente cambierà mai”, la desolante rassegnazione con la quale fenomeni di mala politica, mala gestione, disonestà sociale, vengono subiti, sono frutto dell’abitudine. L'abitudine al peggio.
Il peggio è normale, lo si è “sordinizzato” fino al renderlo accettabile. Lo si subisce come un ineluttabile caso della vita. L’assioma del tengo lavoro, tengo famiglia, tengo problemi, supera ed azzera qualsiasi singola volontà di cambiamento, giustificando lo status quo. Il tempo, ancora questo tiranno, è già occupato in onore alla produttività, allo stipendio, al miraggio del posto fisso, alle bocche da sfamare, ed alle altre mille e una motivazioni. Ma niente di questo sembra “rendere”, in termini dell’investimento energetico che vi apponiamo. La depressione dilaga, perlomeno nelle aree ad alto rendimento: sembra che il frutto (uomo) sia stato spremuto fino alle ultime gocce, che abbia poco da dare.
Ecco allora dove potrebbe portare la rivoluzione prospettata; lavorare meno vuol dire, con una tautologia, oziare di più. Ovviamente una bestemmia, dove la religione del lavoro ha i suoi proseliti.
Dato che certamente, alla fine dei tempi come siamo, questo genere di religione non ci salverà, ripropongo il mio gioco che costa poco. Se è vero che il sistema produttivo, con la sua scala di valori (efficienza, massimizzazione, produttività in una variabile di tempo sempre più ristretta: in una parola negotium – con uomini relegati al binomio produttori e/o consumatori - all'opposto dell'otium) ha fallito miseramente nella sua promessa di un mondo migliore, abitato da uomini felici, allora, per dirla con Robert Louis Stevenson "Dobbiamo rivalutare il significato di ozio dandogli la connotazione positiva di ricerca del piacere all'interno del difficile mestiere di vivere" ed "E' meglio trovare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da 5 sterline" (Robert Louis Stevenson: Elogio dell'ozio, 1877).
Oziare è pensiero, oziare porta consapevolezza, l’ozio porta ad una gestione del tempo diversa, l’ozio è a impatto ambientale zero, l’ozio non è “il padre di tutti i vizi”, l’ozio non è solo equivalente di (dolce) far niente, l’ozio è – primariamente - in un’attività creativa, e certo, l’ozio è disprezzato da chiunque ha bisogno di forme più o meno accreditate ed accettate di schiavismo, in modo da perpetrare ed anzi aumentare lo stato delle cose. Eppure la logica della produttività, dello sfruttamento incondizionato delle risorse, naturali ed umane, mostra evidenti i segni di uno sfaldamento, le crepe rovinose di un sistema che ha ottime probabilità di portarci tutti in fondo alla famosa bocca del vulcano. E’ difficile contraddire questo assunto.
Ed allora, ancora: perché non siamo in grado di sottrarci alla logica in questione, svolgendo questa “dolce rivoluzione”?
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