All'inizio degli anni novanta terminavo la mia istruzione superiore e mi affacciavo, con la boriosità dei venti anni, a cambiare il mondo, di diritto. Una grande fiducia nella mia generazione accompagnava quel periodo: i padri, come sempre, avevano torto e fallito - in più le inchieste giudiziarie in corso lo stavano certificando -, noi avremmo fatto più cose, meglio. Furono gli anni di anni di tangentopoli, del cosiddetto crollo della prima repubblica, della scomparsa repentina degli uomini di punta della classe politica, che per quaranta anni avevano guidato, bel bene e nel male, l'Italia.
Fu come se si fosse aperto uno spazio vitale nuovo. La tipica "uccisione dei padri" stava accadendo sotto ai nostri occhi, per implosione il castello stava crollando. La speranza di un sistema nuovo, basato sul merito, foriero di opportunità, in cui ognuno di noi novizi avrebbe potuto dimostrare il proprio valore, in un gioco aperto e ad armi pari con la società, illuminava la prospettiva. Grandi aspettative nel futuro animavano, ne ero certo, non solo quelli come me, che si affacciavano a dare un'occhiata alla vita che sarebbe stata, ma anche i lavoratori di lungo corso, gli imprenditori, le associazioni, la società - quella stessa che aveva tirato le monetine ai propri politici, cacciandoli.
La discesa in campo dell'uomo nuovo, Silvio Berlusconi, venne a catalizzare questa aspettativa. Certo, il discorso con cui si presentò alla nazione fu un capolavoro di retorica, capace di portare a catarsi un intero paese. Un monologo degno del miglior cinema. Guardarlo oggi fa una certa impressione. La frase più comune fra gli estimatori della prima ora era: "farà dell'Italia ciò che ha fatto con le sue imprese". Il che, con il senno di poi, è esattamente quello che è accaduto.
Sono passati venti anni, e la rivoluzione - prima di tutto estetica - che ha piallato un mondo azzurro, da televendita, sorridente dallo schermo quanto dolente nel privato, è il substrato di coltura nel quale hanno potuto attecchire, antitetici alle aspettative ed alle speranze, malaffare, corruzione, clientelismo in misura maggiore di quella che credevamo debellata con le inchieste del novantadue. In questi venti anni di plastica un sorriso ebete rispondeva beato ed ottimista, mentre la stessa possibilità di futuro per una intera generazione veniva barattata e scambiata con una pesante e criminale restaurazione, aumentata, dei canoni di malaffare pretangentopoli.
I venti anni in cui una intera generazione avrebbe dovuto e potuto accedere al mondo del lavoro, in maniera certo dura e competitiva, ma chiara e meritocratica, si sono trasformati in venti anni di deserto, in cui qualsiasi seme avrebbe avuto difficoltà a germogliare. Venti anni in cui alla mia generazione è stato consegnato lo scomodo ruolo di zecche (bamboccioni, tanguy, cocchidimamma, etc), portate a vivere sfruttando per lo più le rendite raggiunte dai genitori, nella concreta impossibilità di costruire famiglia, casa, futuro.
La classe dirigente di questo paese, tutta, non è immune da responsabilità. Chi avrebbe dovuto guidare il rinnovamento come chi era all'opposizione: la loro dialettica avrebbe dovuto favorire lo sviluppo di un sistema più corretto ed ha finito sistematicamente per scambiare il bene comune con il particolare. C'è un'accusa pesante che pende sulle loro teste: la sottrazione fraudolenta di venti anni è un debito generazionale verso un popolo intero, e quella che è stata ed in gran parte ancora oggi è la nostra classe dirigente (politica e imprenditoriale, spesso gli uni a braccetto con gli altri) deve essere chiamata a risponderne.
L'arroganza con cui ancora oggi gran parte di coloro che hanno partecipato, in posizioni chiave, alla storia recente Italiana, accolgono le critiche, lo sdegno del popolo, i tentativi di messa in discussione dei loro ruoli (che forse ritengono essere eterni, o ereditari) appare tanto più odiosa quanto è di lungo corso la loro esperienza ai vertici. Alla fine la domanda resta una e banalmente disarmante: dove erano in questi venti anni e cosa hanno fatto?
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