domenica 1 maggio 2011

L’estetica della spazzatura.


La felicità, si sa, è un parametro variabile, di difficile misurazione, di fuggevole e incerta definizione, mentre l’infelicità è conclamata, onnipresente e democratica: appartiene a tutti. Anche della Serenità se ne cercano tracce sempre più ardue a trovarsi.
Questo nostro pare essere il tempo di molte incertezze diffuse, di molte domande e pochissime risposte. Una su tutte: siamo destinati ad essere felici? No.
Millenni di storia, progresso, conquiste tecnologiche e civili ci hanno consegnato una società globale popolata di uomini infelici. Ricchi di desideri, il novanta per cento dei quali sapientemente indotti, e quindi drogati ed assuefatti ad un limite che non basta mai, che non soddisfa mai: la dose deve essere maggiore ogni giorno, l’appagamento è sempre più lontano. Oggi il dolby surround mi soddisfa come una dose, ma domani starò male. Dopodomani vorrò un televisore al plasma. E così via, nella universalmente accettata teoria secondo la quale siamo ciò che mostriamo, siamo le cose che abbiamo. Al di là delle cose, dietro al castello di plastica, vetro, metallo, c’è un vuoto. Manchiamo noi. Finchè siamo in vita, ovvio: manca una essenza vitale e spirituale degna di questo nome. Quando poi sopraggiunge la morte, le cose che ci hanno rappresentato nella gran parte dei casi non finiscono come noi, ovvero nel dimenticatoio due metri sottoterra, ma vanno a popolare un universo nascosto e rivoltante, quello della discarica. Gli oggetti che eravamo continuano a vivere in discarica smembrati, riassemblati, inglobati e differenziati per finire sotto cumuli di terra e gabbiani spazzini, o in alcuni casi, di nuovo nei nostri polmoni, a creare nuova spazzatura mortale, dentro le nostre cellule impazzite.

L’Italia vive una stagione interessante, ricca di decadenza etica, scoppiata e resa evidente come diviene palese la spazzatura agli occhi quando non può più esser nascosta. Gli italiani sembrano averne abbastanza (molto più che in passato) dei politici, delle ferrovie, dei giornalisti, delle banche, delle autostrade, della morte delle idee, dell’illegalità diffusa ed accettata in ogni – singolo – rapporto. L’illegalità, a tutti i livelli, sembra essere il vero collante sociale. L’antistato appare molto più forte, in tutte le sue innumerevoli emanazioni, dello stesso stato, incapace a fronteggiare l’ondata e soprattutto a fornire un esempio etico perseguibile. L’ultima campagna elettorale ha visto una proliferazione di massa dei candidati. Segno di un ravvivarsi della politica e della partecipazione civile, si potrà dire. Ahimè è esattamente il contrario.
Là dove si ha un candidato ogni sessanta elettori, c’è un palese ed endemico spregio dell’etica. Il voto viene barattato in base alla conoscenza, alla prossimità spesso parentale, non certo in base ad un programma, a una idea.

“Spazzatura”, dicono con spregio i vertici della nostra classe politica quando le intercettazioni vengono rese pubbliche. A me pare che la spazzatura abbia sempre una sua dignità: quando rappresenta noi stessi, quello che non siamo riusciti ad essere come uomini e che lasciamo dietro di noi; quando, nascosta allo sguardo ritorna prepotentemente a galla ricordandoci la nostra apparenza meno nobile; quando rappresenta un punto debole nella catena innaturale, che si vuole perfetta, dell’esistenza sociale del consumatore uomo; le immagini dei sacchi di spazzatura nelle vie di Napoli hanno una loro estetica che rappresenta meglio di ogni altra la vita umana per come l'abbiamo costruita.

La spazzatura nel terzo mondo - o nelle rampanti nuove potenze (Africa, Centro e Sud America, India, per citare esempi di cui ho diretta esperienza) - è invece radicalmente diversa. Se da noi viene occultata, la spazzatura del terzo mondo è esposta, esibita senza pudore agli angoli delle strade, nelle spiaggie, in campagna. Una vera dominazione della plastica regna indiscussa in questi paesi, dove - al contrario che da noi - c'è poco di superfluo nella vita, non ci sono surround, televisori al plasma o 3d. Anche qui, i rifiuti ci rappresentano, sono un nostro prodotto (per assioma inutile) che invade il mondo, lascia traccia di noi e del nostro passaggio.

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