Anzi, organizzare è diabolico, in quanto motore propulsore dell’intera attività della società occidentale, la quale - dopo essersi avviata allegramente a erigersi come modello dominante di comportamento estendendo i suoi domini sul globo intero - schricchiola vistosamente. Vittoria di Pirro su un regno sgretolato, un mondo che abbiamo contribuito (negli ultimi secoli) in maniera determinante a portare sull’orlo del collasso, proprio grazie alla nostra capacità di organizzare gli eventi futuri.
Prevedere gli eventi, pare, è ciò che rende l’uomo diverso dalle altre specie viventi. Ovvero, è la sua capacità di porsi verso il futuro, di cercare di determinare quale sarà una data sequenza di eventi - che vadano ben al di là dell’immediato rapporto di causa effetto - che consente all’uomo, spingendo la sua mente in là nel tempo, di adottare una serie di comportamenti atti a “guidare” al meglio gli stessi eventi. Una attività, questa, estremamente legata alla logica, alla causalità.
Non si tratta di prefigurarsi scenari improbabili e di renderli reali, quanto di cercare, fra gli N scenari possibili, di scartare gli improbabili, e quindi graduare i plausibili, probabili ed infine i quasi certi. Quanto più la specie umana e le sue società sono state capaci di sfruttare questo modello “previsionale”, tanto hanno avuto successo nell’evolversi. Si potrebbe concludere che la capacità umana di preconizzare eventi ad una certa distanza nel tempo (e di beccarci, ovviamente), sia la misura del suo sviluppo.
Questo concetto trova una applicazione estrema nella nostra società (occidentale), organizzata sulla base del lavoro, e quindi su di una rigida codifica del tempo futuro.
Detto brutalmente, la maggioranza di noi è in grado, senza troppo faticare, di poter dire cosa succederà plausibilmente nella sua vita nelle prossime ventiquattro ore, nella prossima settimana, a volta persino nei prossimi sei mesi, un anno. La scintilla motoria di questa previsione è data dal lavoro, che ha tanta importanza per noi da essere persino citato come primo mattone della costituzione: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.
Questo castello di congetture però inizia improvvisamente a sfaldarsi nel momento in cui cessiamo di fondare la nostra società sul concetto stesso di lavoro. Per quanto folle questa idea appaia, vicini come siamo al collasso in questo terzo millennio, tanto vale fare questo esercizio di retorica per vedere dove porta.
Nel momento in cui il lavoro cessa di essere il motore plasmante delle nostre esistenze, l’idea stessa di tempo si riforma, e con essa il medesimo bisogno – primario oggi – di trovarsi a navigare in un tempo largamente previsto, organizzato, un “tempo amico”. Se spegnessimo la torcia che ci permette di vedere nell’oscurità del futuro, affidandoci al caso, tutto diverrebbe senz’altro caotico.
Come caotiche, spesso, ci appaiono le culture “altre”.
Esempi in merito: le popolazioni africane, del centro america. La fascia del mondo povera del pianeta che non ha potuto godere del tocco di Mida del nostro modello di sviluppo, e che, nei casi in cui lo ha dovuto subire, spesso questo ha partorito risultati mostruosi. Viaggiare in questi luoghi mi ha sempre dato la sensazione di vivere un tempo dilatato: i maggiori sforzi che ho sempre sofferto non sono mai stati dati dal doversi acclimatare, quanto dall’adattarsi ad un fluire del tempo diverso. Ho frequentemente sofferto di uno straniamento, un disturbo chiarissimo, la sensazione di essere fuori tempo, di vivere un tempo asincrono con il resto dell’ambiente che mi circondava. E non si trattava del Jet-lag.
Necessariamente generalizzando, come è d’obbligo in un argomento così vasto, mi pare che la gestione del tempo in queste popolazioni sia senz’altro differente dalla nostra. Oserei dire che è la maggior differenza che ci separa da loro. Di conseguenza diventa una differenza culturale. Semplicemente la vita non è scandita dal metro del lavoro. Spesso l’ottica si sposta dal lungo termine, come è in noi, al breve, brevissimo. Si vive, in qualche modo, solo il presente: si coglie l’attimo. Con ovvie conseguenze, a volte catastrofiche. Quando invece cerchiamo di imporre il “nostro” tempo sul tempo altrui, di altre culture, non otteniamo altro che conflitto. Ovviamente, essendo la nostra divenuta la cultura dominante (grazie proprio alla nostra gestione preconizzatrice del tempo) tendiamo ad imporre il modello che però ha prodotto i risultati sotto gli occhi di tutti.
Ed allora.
Siamo ancora veramente in grado di decantare, come gli illuministi, le magnifiche e progressive sorti dell’uomo? Alla fine dei tempi come siamo, cosa ci trattiene dal riconsiderare totalmente il nostro modello di sviluppo, la nostra stessa concezione di tempo, l’organizzazione delle ore subordinata in primo luogo al lavoro? Dove realmente porterebbe questa rivoluzione copernicana nella gestione del nostro tempo, delle nostre vite?
Prevedere gli eventi, pare, è ciò che rende l’uomo diverso dalle altre specie viventi. Ovvero, è la sua capacità di porsi verso il futuro, di cercare di determinare quale sarà una data sequenza di eventi - che vadano ben al di là dell’immediato rapporto di causa effetto - che consente all’uomo, spingendo la sua mente in là nel tempo, di adottare una serie di comportamenti atti a “guidare” al meglio gli stessi eventi. Una attività, questa, estremamente legata alla logica, alla causalità.
Non si tratta di prefigurarsi scenari improbabili e di renderli reali, quanto di cercare, fra gli N scenari possibili, di scartare gli improbabili, e quindi graduare i plausibili, probabili ed infine i quasi certi. Quanto più la specie umana e le sue società sono state capaci di sfruttare questo modello “previsionale”, tanto hanno avuto successo nell’evolversi. Si potrebbe concludere che la capacità umana di preconizzare eventi ad una certa distanza nel tempo (e di beccarci, ovviamente), sia la misura del suo sviluppo.
Questo concetto trova una applicazione estrema nella nostra società (occidentale), organizzata sulla base del lavoro, e quindi su di una rigida codifica del tempo futuro.
Detto brutalmente, la maggioranza di noi è in grado, senza troppo faticare, di poter dire cosa succederà plausibilmente nella sua vita nelle prossime ventiquattro ore, nella prossima settimana, a volta persino nei prossimi sei mesi, un anno. La scintilla motoria di questa previsione è data dal lavoro, che ha tanta importanza per noi da essere persino citato come primo mattone della costituzione: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.
Questo castello di congetture però inizia improvvisamente a sfaldarsi nel momento in cui cessiamo di fondare la nostra società sul concetto stesso di lavoro. Per quanto folle questa idea appaia, vicini come siamo al collasso in questo terzo millennio, tanto vale fare questo esercizio di retorica per vedere dove porta.
Nel momento in cui il lavoro cessa di essere il motore plasmante delle nostre esistenze, l’idea stessa di tempo si riforma, e con essa il medesimo bisogno – primario oggi – di trovarsi a navigare in un tempo largamente previsto, organizzato, un “tempo amico”. Se spegnessimo la torcia che ci permette di vedere nell’oscurità del futuro, affidandoci al caso, tutto diverrebbe senz’altro caotico.
Come caotiche, spesso, ci appaiono le culture “altre”.
Esempi in merito: le popolazioni africane, del centro america. La fascia del mondo povera del pianeta che non ha potuto godere del tocco di Mida del nostro modello di sviluppo, e che, nei casi in cui lo ha dovuto subire, spesso questo ha partorito risultati mostruosi. Viaggiare in questi luoghi mi ha sempre dato la sensazione di vivere un tempo dilatato: i maggiori sforzi che ho sempre sofferto non sono mai stati dati dal doversi acclimatare, quanto dall’adattarsi ad un fluire del tempo diverso. Ho frequentemente sofferto di uno straniamento, un disturbo chiarissimo, la sensazione di essere fuori tempo, di vivere un tempo asincrono con il resto dell’ambiente che mi circondava. E non si trattava del Jet-lag.
Necessariamente generalizzando, come è d’obbligo in un argomento così vasto, mi pare che la gestione del tempo in queste popolazioni sia senz’altro differente dalla nostra. Oserei dire che è la maggior differenza che ci separa da loro. Di conseguenza diventa una differenza culturale. Semplicemente la vita non è scandita dal metro del lavoro. Spesso l’ottica si sposta dal lungo termine, come è in noi, al breve, brevissimo. Si vive, in qualche modo, solo il presente: si coglie l’attimo. Con ovvie conseguenze, a volte catastrofiche. Quando invece cerchiamo di imporre il “nostro” tempo sul tempo altrui, di altre culture, non otteniamo altro che conflitto. Ovviamente, essendo la nostra divenuta la cultura dominante (grazie proprio alla nostra gestione preconizzatrice del tempo) tendiamo ad imporre il modello che però ha prodotto i risultati sotto gli occhi di tutti.
Ed allora.
Siamo ancora veramente in grado di decantare, come gli illuministi, le magnifiche e progressive sorti dell’uomo? Alla fine dei tempi come siamo, cosa ci trattiene dal riconsiderare totalmente il nostro modello di sviluppo, la nostra stessa concezione di tempo, l’organizzazione delle ore subordinata in primo luogo al lavoro? Dove realmente porterebbe questa rivoluzione copernicana nella gestione del nostro tempo, delle nostre vite?
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