Da qualche anno il mio ruolo di viaggiatore si è fatto più corposo, essendo le mie trasferte in giro per il globo aumentate di intensità a causa di un buffo lavoro che neanche io so definire con esattezza. Mi sono trovato così involontario protagonista di disavventure causate dall’essere il contrario del viaggiatore on the road consumato. Al contempo il trovarmi in luoghi talmente ricchi di profumi, colori, sapori, esperienze e vite diverse dalla mia, mi ha posto in condizione di non poter fare a meno di raccontarli. Il DVM è quindi la fedele ricostruzione dei miei viaggi, di ciò che ho visto e vissuto, sempre in prima persona.
Diario del Viaggiatore Maldestro
Essen, Germania - Febbraio 2010
Le previsioni non sempre vanno a buon fine, e trovo che sia una ottima cosa, dato che in genere proprio gli eventi imprevisti nella vita (almeno nel mio caso) offrono, in contropartita all'imperscrutabilità, le esperienze migliori.
È il caso del viaggio in Olanda e Germania, dove mi stavo preparando ad andare con deficit di entusiasmo. Ad essere sinceri la Germania non mi ha mai scaldato piu' di tanto. Sarà quell'idea generica di teutonica efficienza contrapposta alla mia genetica confusione mentale; insomma, siamo due concezioni del mondo. Mettiamo anche che è febbraio, e le previsioni ad Essen, meta del mio peregrinare, danno neve in abbondanza. Niente di prodigioso mi aspetta, e bofonchio maledizioni in partenza.
Quando scendo dall'aereo nell'aeroporto a dieci chilometri dal confine con l'Olanda, infatti, neve grande, morbida, copiosa. Noleggio una macchina e dopo meno di mezz'ora, con qualche tremore eccessivo (fa freddo, certo, ma mi salgono dalla spina dorsale strane scariche elettriche), sono giá alla reception del piccolo albergo scelto su internet. Pace e tranquillitá (dalla finestra d'albergo, a meno di dieci metri, vedo papere e un lago ghiacciato) a poca distanza dal mio obiettivo: una fiera dove si esporranno fiori e piante di tutto il nord europa, dove dovrei spacciarmi per brillante venditore in cerca di potenziale clientela. Ma in breve le scariche elettriche alla spina si tramutano in febbre a trentotto e dopo essermi imbottito di medicinali, aver effttuato un breve tratto di strada - che compio nel doppio del tempo necessario -, mi trovo a girovagare moribondo per la fiera in questione. Il risultato finale deve essere piú o meno quello di un drogato pallido e cadaverico, in astinenza e in preda a tremori, a colloquio (elemosinando euro per arrivare al prossimo buco) con rubicondi (paragonati a me) nordeuropei in un tripudio di fiori e colori: un ossimoro vagante. I risultati che porto a casa alla fine dei giochi sono infatti raccapriccianti, e non posso biasimare i miei un tempo possibili clienti: non avrei ispirato fiducia neanche a un cleptomane recidivo.
Il giorno dopo mi sveglio in condizioni decisamente migliori, ma la fiera é finita, e quindi ho davanti a me una giornata lunghissima che prevedo passata a guardare lago, papere e neve, con connessa sicura sbronza triste. Con questa prospettiva in mente decido di attivarmi e cercare qualcosa da fare ed improvvisamente, navigando, scopro che sono proprio nel bel mezzo della festa e non lo sapevo: Essen é la città europea della cultura duemiladieci ed io ho fino ad ora abilmente scansato il fulcro della movida culturale del continente di quest'anno (un pó come leggere un fumetto in bagno mentre la tua nazionale segna il gol della vittoria nella finale della coppa del mondo di calcio). Non tutto é perduto, mi dico, e con ancora il febbrone di ieri nelle ossa, mi infilo in macchina e riprendo la volta della Germania, a mezz'ora di autostrada (gratuita).
Mi sento un pó nel paese dei balocchi, ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta, ma - ahimé - non posso essere ubiquo e, fra le centinaia di eventi che potrei vedere, un poco a caso, mi dirigo verso la Zollverein (il sito, in inglese e tedesco, merita) una antica fabbrica diventata, come diligentemente ho avuto modo di apprendere su Internet, patrimonio dell'umanità.
Lo ammetto, sul momento ignoro totalmente cosa mi aspetta, e quindi, bardato fin sulle sopracciglia (fa un freddo cane e ieri ero il patetico simulacro di un essere umano) quando arrivo all'entrata il complesso mi appare come un campo di prigionia. E qui bisognerebbe soffermarsi su quanto siano potenti in genere i preconcetti che abbiamo formulati: basta un secondo per la loro affermazione definitiva, ci vogliono ore perché vengano smontati. Ed é esattamente quello che mi succede all'interno della Zollverein, che non solo non é un campo di prigionia, ma rappresenta la storia industriale dell'europa intera, e - grazie alla teutonica efficenza di cui sopra - l'enorme complesso é stato riconvertito in pochissimi anni dalla sua chiusura, a metà degli anni novanta, in una vera e propria città della cultura, con musei, auditorium, casa del balletto contemporaneo e tutto quanto, piú o meno ufficialmente, fa cultura. Il primo impatto é con la imponente struttura centrale, la cui entrata si trova all'ultimo piano e a cui si accede da una altissima scala mobile. Una volta all'interno del "ventre" industriale si viene abbracciati dagli enormi macchinari, parte della scenografia della storia (anche perché, al primo - ultimo piano, la storia é la stessa Zollverein). Mano a mano che si scende nello stomaco del complesso, con un vero e proprio effetto "digestione", attraverso una scala che da sola vale la visita, si snodano diverse mostre - addirittura un museo di storia naturale: tutto, maledizione, é fatto in maniera impeccabile.
Abituato al museo classico, dove un'opera d'arte/un reperto storico sono lí per essere contemplati, in un contesto piú o meno raffinato (magari all'interno di edifici che sono essi stessi opere d'arte), la Zollverein ridefinisce molto per me i confini del genere, dato che é lo stesso museo a farsi opera d'arte, non solo per la sua essenza architettonica, ma per come la sua essenza é stata sfruttata, ridisegnata e resa capace di dare emozioni: un luogo fantastico (ed allo stesso tempo molto concreto) in cui viaggiare e contemplare altre opere. Il tutto crea un cortocircuito che deve essere simile alla sindrome di Stendhal. Esco entusiasta e scaldato da questa esperienza, ammiro il teutonico perfezionismo e la cura del dettaglio. Fuori, ancora, come sempre negli ultimi tre giorni, bianchi fiocchi grandi e soffici cadono a rallentatore ed allora mi prende una vaga malinconia.
Penso a quanta ricchezza culturale vada sprecata nel mio paese, a come una realizzazione del genere in Italia sia fantascienza, per la rapidità di esecuzione, per la fondamentale assertività e concretezza, per la confortante sicurezza che i fondi stanziati andranno a foraggiare quel progetto ad uso della collettività, e non altre meno limpide tasche. Tutto questo, certo, ma forse un piú importante, genetico fattore: la nostra storia. Leggendo Saramago scrivere "l'Italia dovrebbe essere il premio che viene concesso per essere venuti al mondo", vengo colto dalla rabbia per quanto questa affermazione sia forte e vera, ed allo stesso tempo quanto questa verità rappresenti il maggior impedimento allo sviluppo futuro; la nostra eredità culturale é talmente grande e pesante che non siamo psicologicamente in grado di liberarcene. L'Unesco ha dichiarato 43 siti storici Italiani patrimonio dell'umanitá, piú che in qualsiasi altro luogo della terra. E questo, piú che qualsiasi altro legaccio, marca la differenza e rende esempi come la Zollverein cosí distanti e apprezzabili.
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