Diario del Viaggiatore Maldestro
India - Kochi, Kerala, Febbraio 2007
Parte1
Ho paura di volare ma amo viaggiare. Diciamo che farsela sotto a ogni turbolenza rappresenta lo scotto da pagare al lusso del viaggio, l'ho presa cosí. I prossimi quindici giorni, per contrappasso, prevedono che io prenda undici voli, attraverso cinque nazioni. Eppure stavolta l'idea del trovarmi a diecimila metri di altezza non mi spaventa, sono eccitato dall'idea di tornare, dopo dieci anni dal mio ultimo viaggio, in India.
Solite questioni di business. Ma ogni viaggio in India é un'esperienza a se: la molteplicità di sensazioni alle quali sono soggetto dallo sbarco in aereoporto fino alla partenza mi fa godere al solo pensiero che presto metteró piede sul suolo di Cochin, nel sud del paese. Per arrivare fin qui sono passato dall'Austria, la linea che ho scelto stavolta ha un ottimo servizio (perché quando si vola verso est ogni sedile ha un visore e un comfort superiore, qualsiasi sia la linea, e andando verso ovest vi trovate inscatolati in un sedile angusto e torturatore?) e dallo SriLanka, dove torneró, per ulteriori esplorazioni, alla fine di questa settimana di viaggio.
Non mi ingannavo: appena mi affaccio sulla scaletta, per scendere dall'aereo, uno schiaffo olfattivo alle spezie mi aggredisce le narici. Sembra curry misto a umido. É un odore indefinibile e fantastico, che mi accoglie e conferma che sono arrivato. All'aereoporto un gruppo di contatto mi accoglie neanche fossi il mahatma. Sono venuti a prendermi con tre macchine, la loro ospitalità é imbarazzante e calorosa: probabilmente immaginano cose su di me che io stesso non ho mai osato pensare. Bah, mi faccio trattare come un nababbo, non posso mica ribellarmi. Murugan, quello che sembra il capo, parla moltissimo e io ci metto una decina di minuti prima di capire cosa effettivamente stia dicendo. Questione di ritmo e musica. L'inglese qui é una seconda lingua (oltre alle 400 lingue dell'india, intendo, e oltre all'Hindi, la lingua ufficiale) ma la cadenza, finché non riesco ad afferarla, mi rende ogni cosa incomprensibile. Poco male, dopo dieci minuti sono già abituato e la conversazione procede fluida. Murugan mi spiega che non potrà essere sempre con me, che saró accompagnato nel mio peregrinare da SenthilKumar. Senthil, abbreviato, é seduto sul sedile dietro della Tata (la maggiore industria del paese, principalmente automobilistica) e batte la testa nel tetto a ogni buca. Non emette suono, ma se potesse grugnirebbe. Deve essere due metri almeno, per centocinquanta chili. Murugan guida, io sono sul sedile accanto. Il cubaggio del retro della macchina è occupato da un monolitico indiano in occhiali scuri, barba e completo beige. Se ho ben capito é la mia guardia del corpo. Non credo di averne bisogno, ma se me l'hanno assegnato avrà un senso. Spero. L'unico movimento che Senthil emana, mentre Murugan mi magnifica le sorti della nostra collaborazione (siamo già fratelli) é quello relativo al fazzoletto che usa per asciugarsi il sudore della fronte.
Cochin (o Kochi) é nel Kerala, nel sudovest del paese, si affaccia sul mare arabico, ed é, come gran parte delle città indiane, sporca. La spazzatura (sopratutto plastica) la fa da padrona in ogni luogo, mescolandosi alla polvere ocra. Dal punto di vista estetico, é chiaramente una delle prime impressioni. Ma é solo una grattatina alla superficie e sotto c'é un mondo talmente vasto che non basta una vita ad assimilarlo. Consapevole del limite che ho, vado avanti assorbendo quel che posso.
Il mio cicerone con la parlantina decide che é l'ora del pranzo, e quindi ci fermiamo in un piccolo ristorante sulla strada. Capitolo cibo indiano. I costi sono bassissimi (circa un paio di dollari a testa) ed il cibo - per il mio gusto - superlativo. La cultura culinaria di questo paese rivaleggia tranquillamente con i miei standard europei. Mi sono messo in testa che bontà della cucina e storia, cultura vadano di pari passo. Gli inglesi sono l'eccezione che conferma la regola.
Il cibo del Kerala é speziato e mediamente piccante, vegetariano o con carne, non molto leggero per lo stomaco, a dire il vero. Differisce molto dal cibo degli altri stati, un pó come paragonare la cotoletta alla milanese con la coda alla vaccinara. Quindi viaggiare in India vuol dire anche trovarsi ad effettuare un odissea del gusto, variabile di luogo in luogo. Per me è vizio capitale: fra gli altri, finirò nel girone dei golosi, non riesco a tenere stomaco e bocca a freno, e a ogni pasto mi sento ingrassare. Iniziamo e vedo i miei commensali leggermente a disagio con forchette e coltelli. Mi lancio e inizio a mangiare con la mano (una sola), seguito con sollievo da tutti. Una considerazione totalmente soggettiva: il piacere che si prova a mangiare con le mani, senza le protuberanze di noi che sono le posate, rende l'esperienza gustativa, visiva e olfattiva anche tattile. Questione di coinvolgimento dei sensi. E anche, probabilmente, del sottile piacere connesso all'idea che si sta disobbedendo a una regola acquisita.
Insomma, si gode, punto. Ed io, infatti, faccio fuori ogni cosa, senza avere la minima idea (nè preoccupazione) di cosa stia mangiando.
Per defatigare, a fine pranzo mangio una foglia rinfrescante, con dentro spezie per profumare l'alito e per digerire meglio. Funziona, ho lo stomaco gonfio come un tamburo ma mi sento leggiadro come una ballerina del Bolscioi. Il cameriere (foto) mi guarda serafico.
Fuori una spiaggia enorme e deserta, che fatico a immaginare ricolma di turisti, piccoli mulinelli di sabbia e onde alte, in lontananza. Il ristorante è sulla spiaggia, ma il mare dista almeno un centinaio di metri. Fa caldo, è umido e sudo, un po' per l'inevitabile e un po' per il cibo piccante. Una vecchia con un vestito viola passa con il suo ombrello da pioggia per ripararsi dai raggi del sole e tutto mi si cristallizza in un quadro che mi dà assuefazione e piacere.
Socchiudo gli occhi, penso che domani saremo solo io ed il monolito vestito di lino che mi fa da guardia del corpo, destinazione Bangalore.
Location:Kochi, India