Oggi a Cannes première del film Relatos Salvajes, dell'argentino Damiàn Szifron. Presente. L'invito - che ho ricevuto dietro richiesta - impone l'abito da sera, per le signore. Lo smoking (o tuxedo) per i signori, pena l'esclusione dall'entrata. Ovviamente non ho il tuxedo. Lo ammetto, non ne ho mai messo uno in vita mia. Pazienza, mi arrangio e trovo chi lo affitta. Mi trasformo in un pingue pinguino, e mi avvio alla serata di gala. Mentre cammino, sbatto - letteralmente - in Abel Ferrara, che prosegue dritto, nel senso opposto al mio, curvo sotto la sua gobba, senza neanche girarsi per maledirmi, accompagnato da una giovane valchiria bionda in abito da sera e tacco vertiginoso. Fanno un effetto strano, da episodio fantasy, tipo Game of thrones. Bah, il film sta per iniziare e accelero il passo. Dopo una breve coda di accesso, sfilo quindi sul red carpet, dove è tutto un tripudio di selfie. Le persone sembrano veramente una moltitudine, e quando entro in sala capisco perchè. Il Grand Theatre Lumière offre 2300 posti (comodissimi). Ed è esaurito, come tutte le premiere del festival. Lo schermo, di 30 metri, trasmette le immagini del carpet, fuori, dove sfila il cast del film. Boato improvviso. In sala entra il regista del film. Poi Almodovàr, che scopro essere il produttore. Pochi convenevoli e nessun discorso: il film inizia.
Si fa un gran parlare, di questi tempi, della moltiplicazione degli schermi. Di come i contenuti stiano esplodendo su piattaforme multiple, telefonini, tablet, computer, televisioni. E di come questo stia cambiando l'industria del cinema, mettendo in discussione la distribuzione dei film in sala, ridefinendo un futuro che nessuno è in grado di predire. E tutto questo è vero. Ma quello che succede nella sala grande del Palais è qualcosa che è insostituibile.
Inizia il film e cala il silenzio, come sempre. Lo dico chiaro: il film è una bella commedia, ben scritta, molto divertente, molto cattiva, mai scontata, recitata molto bene da un bel gruppo di attori, con una buona regia. Cosa chiedere di più. Mano mano che la storia (le storie) del film si dipana (no) nella sala accade che l'esperienza si intensifica. E c'è un motivo preciso per questo.
E' un esperienza condivisa con duemilatrecento persone.
Il teatro cinematografico, quel luogo che noi chiamiamo sala, è a tutti gli effetti un luogo di condivisione. Non si tratta di quello che accade sullo schermo. Non è più un'esperienza privata fra me e l'immagine, o meglio, non è solo questo. Si tratta sopratutto del pubblico; di una chiara, poderosa, percepibile partecipazione collettiva ad un'emozione profonda (che sia paura, riso, commozione o altro non fa differenza), provocata - quando il film funziona - ad arte. E maggiore è il pubblico più forte è l'onda emotiva.
Per questo Cannes è un luogo sacro per il Cinema quanto la Scala lo è per il teatro. Non per quello che accade sul palco o sullo schermo, ma per la reazione che questi accadimenti provocano nella sala. E questa di Cannes è una sala sontuosa, appassionata, che applaude, ride, reagisce al film, come un corpo unico.
La moltiplicazione degli schermi rischia di far sparire tutto questo? Non lo so. E' possibile. Il consumo dello schermo diversificato è, nella gran parte dei casi, solitario. Ed il rischio di perdere il senso di una grande esperienza collettiva esiste. Non posso dire certo che nel mio paese il teatro ed il cinema godano di grande fortuna. Il pubblico è diminuito. Ma. Altri paesi dimostrano trend differenti, in netta crescita. Nonostante ed anzi, grazie alla diffusione digitale. C'è speranza. Il cinema è morto? Viva il cinema.
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