L'immagine fa parte di noi, sin da quando nasciamo. La nostra epoca, da tempo, convive con l'immagine, il che ci ha consentito di avere una memoria collettiva basata sulle stesse immagini. La funzione mediante dell'immagine ci consente di conoscere realtà di cui altrimenti non avremmo esperienza. E questo è forse il punto principale del mio piccolo ragionamento, ovvero che l'immagine ci trasmette solo una porzione dell'esperienza, eppure si pretende come reale. E' parziale, come tutti i racconti, e non oggettiva, come tutti i punti di vista. Ma per decenni è stata assegnata a questa forma d'arte relativamente giovane (circa 170 anni fa nasceva la fotografia) una funzione assoluta, veritiera.
Eppure c'è stato un tempo in cui non esistevano immagini, e la nostra esperienza era limitata a ciò che conoscevamo direttamente, o a ciò che ci veniva raccontato. La riproduzione della realtà, i quadri, non avevano la pretesa di essere reali. Ma una fotografia (prima di photoshop) è diversa: porta con se un dato: quel fatto, quella persona, quell'oggetto, sono realmente esistiti di fronte all'obiettivo della macchina fotografica. Questa rivoluzione visiva e mentale, io credo, ha cambiato radicalmente tutto il nostro approccio alla vita, rendendoci a tutti gli effetti drogati di immagine, dipendenti da esse e mai assuefatti. Rendendo l'occhio il principe dei sensi, a discapito di olfatto, tatto, gusto, udito.
Sono questi i motivi che mi hanno spinto a scrivere The Imago, a cercare una storia che mi permettesse di analizzare questo meccanismo: ho cercato di parlare di noi, oggi, prendendo come spunto la vita di uno dei più importanti fotografi di fine '800: Charles Lutwidge Dodgson.
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