L'immagine fa parte di noi, sin da quando nasciamo. La nostra epoca, da tempo, convive con l'immagine, il che ci ha consentito di avere una memoria collettiva basata sulle stesse immagini. La funzione mediante dell'immagine ci consente di conoscere realtà di cui altrimenti non avremmo esperienza. E questo è forse il punto principale del mio piccolo ragionamento, ovvero che l'immagine ci trasmette solo una porzione dell'esperienza, eppure si pretende come reale. E' parziale, come tutti i racconti, e non oggettiva, come tutti i punti di vista. Ma per decenni è stata assegnata a questa forma d'arte relativamente giovane (circa 170 anni fa nasceva la fotografia) una funzione assoluta, veritiera.
Eppure c'è stato un tempo in cui non esistevano immagini, e la nostra esperienza era limitata a ciò che conoscevamo direttamente, o a ciò che ci veniva raccontato. La riproduzione della realtà, i quadri, non avevano la pretesa di essere reali. Ma una fotografia (prima di photoshop) è diversa: porta con se un dato: quel fatto, quella persona, quell'oggetto, sono realmente esistiti di fronte all'obiettivo della macchina fotografica. Questa rivoluzione visiva e mentale, io credo, ha cambiato radicalmente tutto il nostro approccio alla vita, rendendoci a tutti gli effetti drogati di immagine, dipendenti da esse e mai assuefatti. Rendendo l'occhio il principe dei sensi, a discapito di olfatto, tatto, gusto, udito.
Sono questi i motivi che mi hanno spinto a scrivere The Imago, a cercare una storia che mi permettesse di analizzare questo meccanismo: ho cercato di parlare di noi, oggi, prendendo come spunto la vita di uno dei più importanti fotografi di fine '800: Charles Lutwidge Dodgson.
domenica 1 giugno 2014
sabato 17 maggio 2014
Il Cinema è morto, viva il Cinema.
Oggi a Cannes première del film Relatos Salvajes, dell'argentino Damiàn Szifron. Presente. L'invito - che ho ricevuto dietro richiesta - impone l'abito da sera, per le signore. Lo smoking (o tuxedo) per i signori, pena l'esclusione dall'entrata. Ovviamente non ho il tuxedo. Lo ammetto, non ne ho mai messo uno in vita mia. Pazienza, mi arrangio e trovo chi lo affitta. Mi trasformo in un pingue pinguino, e mi avvio alla serata di gala. Mentre cammino, sbatto - letteralmente - in Abel Ferrara, che prosegue dritto, nel senso opposto al mio, curvo sotto la sua gobba, senza neanche girarsi per maledirmi, accompagnato da una giovane valchiria bionda in abito da sera e tacco vertiginoso. Fanno un effetto strano, da episodio fantasy, tipo Game of thrones. Bah, il film sta per iniziare e accelero il passo. Dopo una breve coda di accesso, sfilo quindi sul red carpet, dove è tutto un tripudio di selfie. Le persone sembrano veramente una moltitudine, e quando entro in sala capisco perchè. Il Grand Theatre Lumière offre 2300 posti (comodissimi). Ed è esaurito, come tutte le premiere del festival. Lo schermo, di 30 metri, trasmette le immagini del carpet, fuori, dove sfila il cast del film. Boato improvviso. In sala entra il regista del film. Poi Almodovàr, che scopro essere il produttore. Pochi convenevoli e nessun discorso: il film inizia.
Si fa un gran parlare, di questi tempi, della moltiplicazione degli schermi. Di come i contenuti stiano esplodendo su piattaforme multiple, telefonini, tablet, computer, televisioni. E di come questo stia cambiando l'industria del cinema, mettendo in discussione la distribuzione dei film in sala, ridefinendo un futuro che nessuno è in grado di predire. E tutto questo è vero. Ma quello che succede nella sala grande del Palais è qualcosa che è insostituibile.
Inizia il film e cala il silenzio, come sempre. Lo dico chiaro: il film è una bella commedia, ben scritta, molto divertente, molto cattiva, mai scontata, recitata molto bene da un bel gruppo di attori, con una buona regia. Cosa chiedere di più. Mano mano che la storia (le storie) del film si dipana (no) nella sala accade che l'esperienza si intensifica. E c'è un motivo preciso per questo.
E' un esperienza condivisa con duemilatrecento persone.
Il teatro cinematografico, quel luogo che noi chiamiamo sala, è a tutti gli effetti un luogo di condivisione. Non si tratta di quello che accade sullo schermo. Non è più un'esperienza privata fra me e l'immagine, o meglio, non è solo questo. Si tratta sopratutto del pubblico; di una chiara, poderosa, percepibile partecipazione collettiva ad un'emozione profonda (che sia paura, riso, commozione o altro non fa differenza), provocata - quando il film funziona - ad arte. E maggiore è il pubblico più forte è l'onda emotiva.
Per questo Cannes è un luogo sacro per il Cinema quanto la Scala lo è per il teatro. Non per quello che accade sul palco o sullo schermo, ma per la reazione che questi accadimenti provocano nella sala. E questa di Cannes è una sala sontuosa, appassionata, che applaude, ride, reagisce al film, come un corpo unico.
La moltiplicazione degli schermi rischia di far sparire tutto questo? Non lo so. E' possibile. Il consumo dello schermo diversificato è, nella gran parte dei casi, solitario. Ed il rischio di perdere il senso di una grande esperienza collettiva esiste. Non posso dire certo che nel mio paese il teatro ed il cinema godano di grande fortuna. Il pubblico è diminuito. Ma. Altri paesi dimostrano trend differenti, in netta crescita. Nonostante ed anzi, grazie alla diffusione digitale. C'è speranza. Il cinema è morto? Viva il cinema.
Si fa un gran parlare, di questi tempi, della moltiplicazione degli schermi. Di come i contenuti stiano esplodendo su piattaforme multiple, telefonini, tablet, computer, televisioni. E di come questo stia cambiando l'industria del cinema, mettendo in discussione la distribuzione dei film in sala, ridefinendo un futuro che nessuno è in grado di predire. E tutto questo è vero. Ma quello che succede nella sala grande del Palais è qualcosa che è insostituibile.
Inizia il film e cala il silenzio, come sempre. Lo dico chiaro: il film è una bella commedia, ben scritta, molto divertente, molto cattiva, mai scontata, recitata molto bene da un bel gruppo di attori, con una buona regia. Cosa chiedere di più. Mano mano che la storia (le storie) del film si dipana (no) nella sala accade che l'esperienza si intensifica. E c'è un motivo preciso per questo.
E' un esperienza condivisa con duemilatrecento persone.
Il teatro cinematografico, quel luogo che noi chiamiamo sala, è a tutti gli effetti un luogo di condivisione. Non si tratta di quello che accade sullo schermo. Non è più un'esperienza privata fra me e l'immagine, o meglio, non è solo questo. Si tratta sopratutto del pubblico; di una chiara, poderosa, percepibile partecipazione collettiva ad un'emozione profonda (che sia paura, riso, commozione o altro non fa differenza), provocata - quando il film funziona - ad arte. E maggiore è il pubblico più forte è l'onda emotiva.
Per questo Cannes è un luogo sacro per il Cinema quanto la Scala lo è per il teatro. Non per quello che accade sul palco o sullo schermo, ma per la reazione che questi accadimenti provocano nella sala. E questa di Cannes è una sala sontuosa, appassionata, che applaude, ride, reagisce al film, come un corpo unico.
La moltiplicazione degli schermi rischia di far sparire tutto questo? Non lo so. E' possibile. Il consumo dello schermo diversificato è, nella gran parte dei casi, solitario. Ed il rischio di perdere il senso di una grande esperienza collettiva esiste. Non posso dire certo che nel mio paese il teatro ed il cinema godano di grande fortuna. Il pubblico è diminuito. Ma. Altri paesi dimostrano trend differenti, in netta crescita. Nonostante ed anzi, grazie alla diffusione digitale. C'è speranza. Il cinema è morto? Viva il cinema.
venerdì 16 maggio 2014
Raccontare o morte.
Nel novantanove per cento dei casi il genere umano si rivolge a te guardandoti come un essere alieno in un mondo di folli. I folli che fanno parte del tuo mondo si rivolgono a te come a un confessore, un risolutore, un analista. Tua moglie si rivolge a te come un'apparizione istantanea in un mare di assenza. Le tue figlie ieri lasciavano le poppate, verso le prime pappe. Oggi si rivolgono a te per la paghetta e lasciano il ragazzo. Nel frattempo Il tempo che impiegherai a raccontare la storia che devi raccontare (e che hai scelto) sarà speso fra tribolazioni, maledizioni e bestemmie. E questa lista non proprio lusinghiera vale per tutti, nessuno escluso, i produttori, registi, creatori di cinema.
Quindi perchè tutta questa gente, al mercato di Cannes?
Quale insana forma di masochismo fa scegliere a tutte queste persone la vita che fanno?
Cannes è il luogo dove, dietro la facciata del red carpet - su cui sfila l'1% di questa industria, che crea il 100% del desiderio popolare, vivono e si incontrano i rappresentanti - migliaia - della categoria sofferente di cui sopra: produttori, sceneggiatori, registi, e via dicendo. Parlano di storie. Cercano storie. Vendono storie. Si raccontano storie. Ed ogni storia viene raccontata, spesa come se fosse la migliore del mondo.
Nei maggiori festival, i film in vendita sono circa cinque/seimila. Che devono essere venduti e raccontati. Altrettanti, con una stima al difetto, sono i film che verranno raccontati ma che non esistono ancora.
Una mole gigantesca di racconto. E forse è questa la chiave.
Il narrare.
Questa attività umana che è probabilmente la vera essenza di noi.
Il racconto è multiforme, ma persistente. Ovunque. Su uno schermo, attraverso scambi informali fra due persone, nella maniera di vestire, di portarsi, nella costruzione di un brand, nel mito che regna introno al cinema. Tutto è racconto. Nell'esatto istante in cui abbiamo una relazione (o pensiamo che ne avremo una), abbiamo un pubblico. E raccontiamo, sempre e comunque, in relazione a un pubblico che immaginiamo recepisca o recepirà. Accade in ogni manifestazione umana. Il cibo è racconto. La moda è racconto. L'arte e la cultura sono, ovviamente, racconto. Per questo non possiamo farne a meno. E' la radice dell'uomo. E la settima arte è la maniera più articolata e complessa di raccontare.
Noi siamo qui per raccontare per mezzo dello strumento più complesso da gestire che esista: il cinema.
A proposito, oggi anteprima mondiale di Dragon Trainer 2. Sul tappeto Cate Blanchett, bionda, algida. Lei davvero aliena. Molto, molto più rilassata rispetto a Nicole Kidman, abbracciava un pupazzo di drago.
Domani anteprima di Relatos Salvajes, in concorso, che andrò a vedere.
giovedì 15 maggio 2014
Mutazioni cinematiche
Seconda giornata di festival, workshop e incontri. Cannes si conferma essere un ossimoro, fervente e sdraiata allo stesso tempo. Il sole di fine maggio che sta omaggiando questa parte di mondo rende ogni cosa migliore, gioiosa. It's cinema power! Oggi è la giornata del pamphlettone Turner, di Mike Leigh (noto al secolo per Segreti e Bugie del 1996), la storia del noto pittore inglese di inzio '800. Produzione multimilionaria. Chissà quanto sarà costato questo effetto speciale di soleggiata allegria agli studios. Chissà se, domani, quando incomincieranno ad atterrare sulla croisette i film polacchi, turchi, italiani, avremo - non potendoci permettere altro - pioggia e depressione. Tutta questione di budget. Per inciso, un film italiano medio si attesta intorno ai due milioni di euro di budget. Uno inglese (o francese) circa cinque. Uno medio americano 10. Holliwood 50.
La domanda - atavica - è: sappiamo raccontare storie che coinvolgano un pubblico vario, non necessariamente italiano, non necessariamente europeo? Una solida storia da raccontare non dovrebbe trascendere i confini geografici? I nostri sceneggiatori sanno/possono/vogliono fare questo esercizio? Domanda retorica. Ma ottima motivazione al crescente gap di budget nostrano. Non essendoci un audience per le nostre storie, produciamo storie per "noartri", che parlano de noartri. Autoreferenziali e, sopratutto, vecchi e decadenti. Il pubblico medio in sala (nell'unione europea) è over 50 (in Italia, probabilmente di qualche anno più anziano). Pubblico medio. La maggiore cinematografia mondiale (Bolliwood) conta su un miliardo di potenziali spettatori, la cui età media è sotto i 30. Ahimè, ne sono certo, domani piove.
La croisette si popola, intanto, di nuove creature.
O meglio, delle trasformazioni bioniche delle creature di ieri. La casta dei paria, i sempiterni amanti della foto ricordo, si sono dotati - presi da un impeto di scaltrezza un po' partenopea - di centinaia di scale, di ogni foggia e forma, che - in sostanza - assolvono alla funzione molto pratica di poter avere una foto che non sia della nuca del paria di fronte. E così, con un effetto molto straniante, in questa moltitudine ordinata e multifome che è il festival di Cannes, sono apparse di fronte al Palais du Festival questi picchi in alluminio colorato, a disegnare un orizzonte di mini montagnole scheletriche, che a breve saranno prese d'assalto dai loro propietari. Immagino l'idea debba essere venuta a qualcuno per primo. E immagino orde di over 50 dotati della loro scala-da-cannes, che affittano gli scalini a un tot al metro d'altezza.
All'arrivo di Thimoty Spall (l'attore icona, di Leigh, già osannato come avesse vinto la palma d'oro), vedo già il quadro: moltitutidini belanti e sbavanti, nascoste dietro ai loro ubiqui mezzi di ripresa, creano un muro tecnologico di schermi, poggiato alla meno peggio su piccole vette d'alluminio colorato.
Chissà se Turner avrebbe mai voluto dipingerlo.
La domanda - atavica - è: sappiamo raccontare storie che coinvolgano un pubblico vario, non necessariamente italiano, non necessariamente europeo? Una solida storia da raccontare non dovrebbe trascendere i confini geografici? I nostri sceneggiatori sanno/possono/vogliono fare questo esercizio? Domanda retorica. Ma ottima motivazione al crescente gap di budget nostrano. Non essendoci un audience per le nostre storie, produciamo storie per "noartri", che parlano de noartri. Autoreferenziali e, sopratutto, vecchi e decadenti. Il pubblico medio in sala (nell'unione europea) è over 50 (in Italia, probabilmente di qualche anno più anziano). Pubblico medio. La maggiore cinematografia mondiale (Bolliwood) conta su un miliardo di potenziali spettatori, la cui età media è sotto i 30. Ahimè, ne sono certo, domani piove.
La croisette si popola, intanto, di nuove creature.
O meglio, delle trasformazioni bioniche delle creature di ieri. La casta dei paria, i sempiterni amanti della foto ricordo, si sono dotati - presi da un impeto di scaltrezza un po' partenopea - di centinaia di scale, di ogni foggia e forma, che - in sostanza - assolvono alla funzione molto pratica di poter avere una foto che non sia della nuca del paria di fronte. E così, con un effetto molto straniante, in questa moltitudine ordinata e multifome che è il festival di Cannes, sono apparse di fronte al Palais du Festival questi picchi in alluminio colorato, a disegnare un orizzonte di mini montagnole scheletriche, che a breve saranno prese d'assalto dai loro propietari. Immagino l'idea debba essere venuta a qualcuno per primo. E immagino orde di over 50 dotati della loro scala-da-cannes, che affittano gli scalini a un tot al metro d'altezza.
All'arrivo di Thimoty Spall (l'attore icona, di Leigh, già osannato come avesse vinto la palma d'oro), vedo già il quadro: moltitutidini belanti e sbavanti, nascoste dietro ai loro ubiqui mezzi di ripresa, creano un muro tecnologico di schermi, poggiato alla meno peggio su piccole vette d'alluminio colorato.
Chissà se Turner avrebbe mai voluto dipingerlo.
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mercoledì 14 maggio 2014
La differenza della croisette
Blando, attraversando una variegata umanitá suddivisa in caste, mi dirigo verso il festival più mondano e modaiolo del pianeta. Ci sono quelli in smoking e occhiali da sole (e sono tanti), piazzati intorno ai tappeti rossi, vero luogo del delitto del festival. Fra poco la Kidman e Tim Roth sfileranno, con facce meste, per la prima di Grace. Forse hanno il presagio del flop. Poi ci sono quelli che cercano disperatamente un biglietto, un last minute per entrare a vedere un film che non resterá negli annali. Anche questi sono tanti, accalcati intorno alle transenne, perennemente dotati di camera, telefonino o ipad, a immortalare le nuche delle moltitudini anismanti di fronte a loro. Poi c'è la casta a cui appartengo, mediana. Fregiati da un badge, una targhetta identificativa con tanto di foto - appena arrivi te ne scattano una: il badge ti fa accedere ovunque, alle proiezioni come alla marchè, il mercato. Siamo invisibili, e tutti invariabilmente qui con un solo obiettivo: fare il prossimo film o piazzare quello giá fatto. E siamo, anche noi, in tanti. Produttori principalmente, poi sceneggiatori, registi (pochi, a dire il vero), venditori, distributori. Tutta la fiumana che compone la parte business. Il nostro credo é: building connections. Come un mantra. Le connessioni, le relazioni sono tutto. Hai un incontro alle otto in ascensore. Preparati a presentare il film (pitching) in meno di 30 secondi. Se poi scopri che stavi raccontando la grande opera al tizio che porta i giornali ai piani, pazienza, tutto fa. Mollagli un biglietto da visita, comunque. Magari porta il giornale alla porta del finanziatore giusto e preso da un impeto divino racconta la tua storia e molla il tuo biglietto da visita, tutto fa. Certo, e con grande differenza rispetto al festival di Berlino, qui tutto si srotola in maniera più rilassata. Se la berlinale è una corsa continua, con tempi contingentati, dove ogni dettaglio sembra pompare verso l'assertivitá quasi militaresca (per caritá. È sempre il magico mondo del cinema) sulla croisette sembra di essere alle bahamas. Sará la stagione, sará la brezza del mare, eppure. Cannes permette di bere un aperitivo, mentre guardi in lontananza il roboante carrozzone mettersi in moto, e - tutto sommato - questo fa la differenza.
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